venerdì 28 novembre 2008
ONU, la violenza sulle donne è pandemica
venerdì 21 novembre 2008
Il commercio deve contribuire allo sviluppo dei popoli
In una lettera, i dirigenti delle organizzazioni affermano che alcune settimane fa sono stati informati riguardo l'interesse di un gruppo di congressisti e senatori democratici ad insistere, a partire dall'elezione di Barak Obama come presidente dell'EEUU, su una possibile negoziazione del CAFTA-DR (sigla inglese di Acuerdo de Libre Comercio de América Central y Repùblica Dominicana).
Secondo i dirigenti la nuova politica è conseguenza delle dichiarazioni di Obama che ha detto più volte, in relazione all'America Latina, che vorrebbe stabilire relazione alla pari con i paesi latinoamericani e che una volta eletto, avrebbe rivisto tutti i trattati commerciali. Per promuovere questa iniziativa in America Latina, sono stati scelti un cittadino brasiliano, un ecuadoriano, un colombiano e, nel caso del Centro America, Ottón Solís, presidente della Commissione Politica del Partido Acción Ciudadana.
Nel documento in cui si espongono le loro proposte, le organizzazioni sottolineano che il commercio deve contribuire allo sviluppo dei popoli.
Secondo gli enti, il TLC firmato tra America Centrale, Repubblica Domenicana e Stati Uniti non contribuisce a combattere la povertà né a promuovere uno sviluppo equitativo: "Il trattato protegge le multinazionali statunitensi e lascia indifesi i nostri paesi, particolarmente in agricoltura, medicina e ambiente".
Le organizzazioni propongono di riformare il Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti affinché l'accordo non costringa i paesi centroamericani a convertirsi in semplici importatori di prodotti agricoli sussidiati:"Un TLC in cui, se la EEUU mantiene sostegni agricoli, i nostri paesi non dovranno eliminare le protezioni esistenti per la loro produzione alimentare".
Esigono inoltre un accordo che favorisca un politica di sicurezza alimentare nazionale e la messa a punto di politiche di sostegno verso i piccoli e medi produttori nazionali. Vogliono un TLC che non obblighi i paesi dell'America Centrale a garantire ai risparmiatori statunitensi mezzi straordinari di protezione che superano persino quelli che utilizzano negli Stati Uniti.
Un'altra proposta è un accordo che, nel campo della produzione di medicinali generici, non prolunghi la scadenza dei brevetti, né permetta un periodo addizionale per la presentazione dei dati: "Un TLC che non prolunghi il monopolio sul brevetto da parte da parte delle imprese farmaceutiche attentando alla sicurezza sociale e ad una maggiore libertà commerciale".
In relazione con la questione ambientale, le organizzazioni propongono un accordo che rispetti le varie iniziative di protezione dell'ambiente, promosse negli ultimi decenni dai paesi centroamericani, che non escluda le disposizioni delle leggi nazionali che regolano l'accesso alle risorse naturali e che includa i procedimenti per accordare concessioni e licenze per l'uso e lo sfruttamento dell'acqua e delle forze ad essa associate, dei boschi, delle risorse minerarie, delle risorse marine e della biodiversità in generale, così come i diritti delle comunità indigene legate a tali risorse.
"Ricostruiamo il Buon Vivere per tuti i popoli del Mondo"
La sessione consultiva dei popoli indigeni che assiste alla VII Foro del Fondo per lo sviluppo dei popoli indigeni di America e Caraibi (Fondo Indigeno) si è pronunciata contro il modello economico globale, che provoca l'espropriazione e la distruzione dei territori indigeni e la criminalizzazione delle loro proteste, attraverso persecuzioni, assassinii, spostamenti forzati e rapimenti.La sessione del Fondo Indigeno che si è svolta a Città del Messico ha riunito i rappresentanti dei paesi di Nord, Centro e Sudamerica. I leader indigeni provenienti da tutto il continente hanno unito al loro rifiuto al modello economico, il loro appoggio e la loro solidarietà alle lotte dei popoli indigeni della Colombia e del Perù. Il loro pronunciamento è stato adottato all'unanimità dall’assemblea.Alla sessione hanno anche partecipato i rappresentanti di vari stati del continente. L’assenza dei delegati del governo peruviano è stata discussa sommariamente dai partecipanti. Miguel Palacín Quispe, coordinatore generale del Coordinamento Andino di Organizzazioni Indigene CAOI, che partecipa alla VII sessione, ha evidenziato che la globalizzazione neoliberale rappresenta un nuovo tentativo di conquista, simile a quella avvenuta 516 anni fa, che tentò lo sterminio dei popoli indigeni. ma se possibile più subdola. "Sotto la bandiera dello sviluppo impongono politiche distruttive per l'ambiente e i territori e violano i diritti individuali e collettivi dei popoli" - ha detto Palacìn.“Però siamo ancora vivi- ha sottolineato- e siamo passati dalla resistenza alla proposta. Noi popoli indigeni opponiamo a questa nuova invasione la nostra opzione di Buon Vivere per tutta l’umanità, basato sui nostri valori e pratiche ancestrali di complementarietà, equità e reciprocità tra gli uomini, i popoli e Madre Natura."
Sul tema alcuni giorni da il Fondo Indigena ha presentato tre pubblicazioni dal titolo "Buen vivir e Sviluppo con Identità" a La Paz, Bolivia, per contribuire alla riflessione e al dibattito sulle sfide e il contributo dei popoli indigeni nel continente americano. In uno scenario che prende come contesto di riferimento la concertazione e lo sviluppo identitario le tre pubblicazioni si basano sulla proposta di un modello di sviluppo plurale che promuove la convivenza, il rispetto, la solidarietà in armonia con la natura e l'arricchimento mutuo tra le culture e i popoli, attraverso il recupero delle tradizioni ancestrali.
Alla presentazione dei testi hanno partecipato leader indigeni di 12 paesi del continente, autorità del Fondo Indígena, rappresentanti del gobierno boliviano, delegati di organismi di cooperazione internazionale. I contenuti specifici si riferiscono a la visione indigena su tre temi specifici: Visione dell'ONU e Cooperazione Internazionale, Tendenze delle Instituzioni statali rispetto allo Sviluppo Indigeno in America atina e Caraibi e Globalizzazione: una piattaforma di esclusione per i popoli indigeni.México DF, 07 de Noviembre de 2008 Comunicaciones CAOI - COORDINADORA ANDINA DE ORGANIZACIONES INDÍGENAS- CAOI
lunedì 10 novembre 2008
Lamerica Latina secondo Obama
lunedì 3 novembre 2008
Un ritorno all'agricoltura dopo il crollo finanziario?
Più acqua e più sanità
giovedì 16 ottobre 2008
L'altro dio CHE E' FALLITO
Dal "Manifesto" del 7 ottobre 2008
martedì 14 ottobre 2008
Altre otto donne stuprate e uccise, 607 dall'inizio dell'anno
Il vero costo degli Agro-Combustibili
Le riflessioni dei popoli indigeni
12 Ottobre: 516 anni di oppressione dei popoli Americani
I 40 della Teologia della Liberazione
- Quando ha iniziato ad assumere come punto di partenza della teologia, la realtà della violenza e della povertà in America Latina e nei Caraibi?
lunedì 8 settembre 2008
Guatemala: Stop a violenza, persecuzione, repressione ed impunità
sabato 6 settembre 2008
Lev Tolstoj: maestro di nonviolenza cristiana
I principi fondamentali del pacifismo di Lev Tolstoj: nonviolenza, non resistenza al male, non-collaborazione, antimilitarismo, lavoro manuale per il pane, riscoperta del lavoro agricolo. Nell'autobiografia Gandhi scrivera': "La sua lettura mi entusiasmo'. Ne ebbi un'impressione indimenticabile. A quel tempo io credevo nella violenza. Quel libro mi curo' dallo scetticismo e fece di me un fermo credente nell'ahimsa"...continua
La crisi alimentare e il caro vita
Ormai non si arriva più a fine mese. Non si vive più. Anche nel ricco occidente la maggioranza della popolazione appare sempre più stremata nel tentativo di riuscire a sostenere una vita appena dignitosa. Sempre più frustrati dall'assenza di spazi sociali e comunitari condivisi. Sempre più precari nel lavoro come nelle vite di tutti i giorni, affannate da un'idea di tempo che non lascia spazio per nessuna aspirazione o sogno condiviso. Sempre più arrabbiati e apparentemente inermi davanti al fallimento di un modello di democrazia e di politica lontani anni luce dalle vite reali, dai problemi giornalieri, dalle insicurezze che producono paure, dalla solitudine sociale, dall'ansia rabbiosa che divora la convivenza quotidiana.
Nessuno è in grado di dare risposte efficaci alla crisi di sistema che in maniera strutturale coinvolge la nostra società nel suo complesso attirandola verso il basso. Non ultima la crisi alimentare mondiale che si traduce in un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, pagato dalle tasche di cittadini "normali" che così normali non si sentono più. Tutti anche in Italia si sono accorti degli aumenti spropositi dei beni di prima necessità. Aumenta tutto, dalla luce, al gas, al pane, alla pasta, all'acqua, agli affitti, ai biglietti. Un caro vita che appare come una spirale inarrestabile e fuori controllo. Come se nulla si potesse fare davanti alla crisi, politici e maggioranza dei media stendono pianti e accampano scuse sulla crisi vissuta da precari, famiglie, anziani, giovani e da quella classe "media" ormai risucchiata tra quelli che non riescono più a risparmiare.
La giustificazione che la "casta" dà della crisi suona più o meno così: "è colpa della crisi internazionale; ci attendono periodi difficili (ma quali erano quelli buoni?); c'è la crisi dell'economia statunitense; c'è la crescita di nuovi competitors sul mercato globale; il costo del lavoro è molto più basso in altri paesi; il terrorismo internazionale è un ostacolo enorme; la guerra in Irak e la minaccia iraniana; il governo non è abbastanza stabile; " ed altri bla bla bla di questo tipo. Invece le risposte che la “casta” offre per affrontare la crisi sono: "dobbiamo liberalizzare e privatizzare di più; dobbiamo essere più flessibili, diminuire le "rigidità" (saremmo noi...) del lavoro; sostenere le esportazioni; sostenere le imprese; maggiore sicurezza per le strade" e così via.
Ma la domanda che ci poniamo e che vorremmo porre è, ma chi sono i responsabili di questa situazione? Chi l'ha provocata? E soprattutto, c'è qualcuno che in questa lunga ed appena iniziata crisi economica si è arricchito? E chi e come è riuscito a farlo? Non sono dettagli di poco conto per comprendere le cause ed i responsabili che hanno prodotto questa famosa "crisi" che per molti si traduce nel fatto di entrare in un supermercato senza riuscire più a fare la spesa, così come a pagare l'affitto di casa o la rata del mutuo (per chi ha avuto la possibilità di farlo).
Del resto se un poveraccio ruba qualcosa da mangiare oppure occupa una casa perché non può pagare un affitto esagerato, viene denunciato o arrestato. Quando qualcuno precipita nella fame interi popoli, riduce alla miseria le vite di centinaia di milioni di cittadini, distrugge i nostri risparmi continuando a fare profitti a palate, perché non dovrebbe essere processato e incarcerato? Non è un crimine contro l'umanità affamare le persone, violare i diritti umani, provocare immani disastri ambientali, costringere a gigantesche migrazioni interi popoli precipitati nella miseria? Ed allora vogliamo giustizia. E vogliamo anche sapere la verità, non ci sembra di chiedere poi tanto.
L'attuale crisi internazionale, che si traduce in crisi alimentare, climatica e sociale, non è certo il risultato di un disastro naturale improvviso o di un incantesimo strano, ma il prodotto di decine di anni di liberalizzazioni commerciali, d'integrazione verticale della produzione, della lavorazione e della distribuzione fatta dalle grandi multinazionali. Le scelte politiche promosse negli ultimi trenta anni dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Organizzazione Mondiale del Commercio insieme a Stati Uniti e Unione Europea sono alla base della crisi di sistema. Ma non sono stati questi soggetti a gestire la "governance" mondiale in questi decenni, imponendo un modello economico e culturale basato sul liberismo, la competizione ed il mercato come unico luogo della democrazia? Ed allora anche la crisi alimentare e dei prezzi dei beni di prima necessità è frutto di queste scelte. Politiche che hanno significato una liberalizzazione su scala globale, apertura senza limiti dei mercati, privatizzazione delle terre destinate all'agricoltura locale e loro trasformazione in monocoltivazioni da esportazione, hanno condotto all'attuale crisi alimentare ed al caro vita.
Ma non avevano annunciato da trenta anni a questa parte ad ogni loro riunione che avrebbero eliminato il "problema" della fame nel mondo? Prima l'asticella era fissata agli anni '80, poi '90, poi gli obiettivi del millennio e poi il 2005 ed ora il 2015. Si sono create istituzioni come la FAO, banche, organizzazioni del commercio, club esclusivi come il G8, con l'obiettivo di rispondere ai problemi globali ed ora scopriamo che non solo i problemi ci sono e sono aumentati enormemente, ma che proprio le istituzioni preposte alla loro risoluzione sono responsabili dei nostri problemi. Ed ogni anno raccontano una scusa tutta nuova. Ad ogni scintillante e sempre più assediato meeting spostano l'asticella dei diritti ad un momento più lontano. Gli ultimi incontri della FAO e del G8 ne sono la riprova. Lo scorso giugno l'istituzione che dovrebbe risolvere il problema della fame del mondo ha mandato in scena nella sua conferenza internazionale a Roma l'ennesimo fallimento, l'ennesima ipocrisia raccontata agli oltre 850 milioni di persone affamate ed ha confermato il proprio impegno per mantenere una politica economica commerciale di dipendenza del sud dal nord e di appoggio alle multinazionali agroalimentari. Maggiore apertura dei mercati, maggiore flessibilità, aumento della produzione. Ancora una volta le stesse ricette responsabili della malattia. Ma come può essere che nessun politico voglia ricordare a Ban Ki- moon, segretario generale delle Nazioni Unite, che non ha senso aumentare la produzione per combattere la fame, visto che il problema non è l'assenza di cibo, anzi. Di cibo ce n'è anche troppo. Oggi si produce tre volte più cibo che negli anni sessanta. Mentre la popolazione è appena duplicata, il numero di quelli che muore di fame è raddoppiato. Ma come è possibile? Fesserie analoghe le afferma il numero due della FAO, Josè Maria Sumpsi, quando dice che si tratta di un problema creato dall'aumento dei consumi dei paesi emergenti come India, Cina o Brasile. Davanti a tanta ipocrisia condita da colossali menzogne utilizzate per dare risposte ad un problema così serio, c'è da chiedersi se non siano proprio la FAO, la BM, il WTO, il FMI o la burocrazia delle Nazioni Unite il vero ostacolo alla risoluzione dei nostri problemi.
Ma a chi fa gioco la democrazia degli sherpa? Chi si è arricchito? Oggi il monopolio di certe multinazionali ad ogni livello della catena produttiva alimentare, fino al commercio e distribuzione, ha prodotto utili da capogiro. Nonostante la crisi che colpisce noi poveri mortali, la Monsanto, la Nestlè, la DuPont, la Unilever, Wal Mart, Carrefour, denunciano guadagni di centinaia di miliardi di dollari. Gli utili di una sola di queste grandi imprese basterebbero a risolvere in un anno il problema della fame nel mondo. Ma non si può fare, perché questo sistema economico si fonda sulla necessità che molti rimangano esclusi, che molti lavorino come schiavi, che molti rinuncino ai loro diritti. Un'economia di tipo feudale per chi sta sotto, soft e tecnologica per chi sta sopra. I governi spinti dalle regole di questa economia feudale hanno smantellato le politiche agrarie che appoggiavano la produzione alimentare ed adesso appoggiano le grandi imprese. Lo sviluppo dell'agricoltura industriale ha distrutto l'ambiente e ipersfruttato i suoli, contribuendo all'aumento del riscaldamento globale (altra gigantesca minaccia che rischia di abbattersi principalmente sulla testa di quelli che stanno sotto). L'agricoltura industriale causa infatti tra il 17.4 ed il 32% dei gas ad effetto serra. E mentre le famiglie di agricoltori vengono cacciate dalle loro terre e finiscono nella povertà, la FAO con una faccia di bronzo senza pari annuncia in un documento che i poveri aumenteranno di altre 100 milioni di unità nei prossimi anni. Quasi un miliardo di esseri umani nel 2015 morirà di fame. Ma non doveva sparire la fame dalla faccia del pianeta? Una vergogna inaccettabile resa ancora più amara dal fatto che trattasi di una precisa condanna a morte eseguita preventivamente dagli organismi internazionali preposti alla nostra sicurezza e pagati (troppo) per risolvere i nostri problemi. Questa democrazia non solo è malata, ma è morta se ha bisogno di esistere sull'esclusione sistematica di miliardi di essere umani dai suoi vantaggi e dalla sua comunità privilegiata.
Ma c'è di peggio. La rivista inglese "The Guardian" ha denunciato all'opinione pubblica un documento tenuto segreto della BM che afferma come in realtà la responsabilità dell'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità sia il frutto della politica statunitense ed europea di sostegno agli agrocarburanti. E già, perchè pare che ultima delle menzogne in ordine di tempo sia proprio la questione degli agrocombustibili per risolvere la crisi legata ai cambiamenti climatici. Proprio durante il vertice del G8 in Giappone per discutere appunto di crisi alimentare e cambiamenti climatici, sono state confermate le misure che garantiranno il modello di produzione agricola intensivo, monoculturale e su larga scala per le materie prima destinate agli agrocarburanti. Tutto ciò causerà enormi impatti sociali ed ambientali nei paesi del sud del mondo che ne saranno i principali fornitori. Ulteriore conseguenza l'aumento dei prezzi e dell'instabilità economico e sociale per tutti noi anche da questo lato del mondo. Con una catastrofe climatica alle porte ed il prezzo del petrolio triplicato negli ultimi anni, invece di pensare a sviluppare e rendere efficace ed efficiente un sistema energetico alternativo basato sulle rinnovabili, la "casta" ha deciso di investire negli agrocombustibili per sostituire il petrolio. Se per farlo bisognerà cacciare dalle loro terre milioni e milioni di contadini ed indigeni, provocare guerre, danneggiare l'ambiente, far aumentare i prezzi al consumo e rendere le nostre vite sempre più precarie, poco importa. Solo così potranno continuare a mantenere lo stile di vita occidentale, ormai ammirato dagli stessi occidentali solamente in televisione o nelle pubblicità dei giornali.
Si chiama "de-ruralizzazione " il processo che spopola dalla terre milioni di contadini, sgretolandone l’autosufficienza e la sicurezza alimentare. Un trauma che per noi si traduce in caro vita e precarietà sociale, mentre per i contadini ed i coltivatori in dramma. Solo in uno stato dell’India chiamato Maharashtra i contadini che si sono suicidati a causa di queste misure adottate sono stati 3926 nel 2005! In tutta l’India si parla addirittura di oltre 150.000 contadini che si sono tolti la vita negli ultimi anni a causa dello sfollamento delle terre che consente lo sfruttamento intensivo del suolo da parte delle multinazionali, per lo più europee e statunitensi. E’ una cifra da capogiro, alla quale si stenta a credere. Purtroppo però questa è la cruda realtà di un modello economico e di scelte di politica agricola e alimentare che producono genocidi, oltre che crisi economica. Ma la politica dov'è? Chi difende i nostri interessi? Chi denuncia queste torbide istituzioni che insieme alle grandi multinazionali ed a politici ossequiosi in doppio petto sono in realtà i veri “fannulloni” e “minacce” di questa società? Purtroppo la politica è assente oppure impegnata in ritualità e pratiche antiche quanto sterili, appartenenti al secolo passato e che costituiscono una zavorra enorme per affrontare le sfide di questo secolo. L’auto-organizzazione ed il protagonismo sociale sono in questo momento le uniche strade percorribili per resistere e per provare ad immaginare un’idea altra di relazioni umane, prima che economiche. Per esempio la rete internazionale degli agricoltori, come quella chiamata Via Campesina, non solo si oppone all’organizzazione mondiale del commercio senza delegare il proprio dissenso ai governi, ma riesce anche a promuovere una nuova strategia di alimentazione. Dare innanzitutto il diritto ad ogni paese di stabilire i termini della propria produzione e consumo di prodotti alimentari, consolidare la forza dei piccoli proprietari terrieri proteggendoli dai danni di un sistema di importazione a basso costo, opporsi agli organismi geneticamente modificati, abolire le sovvenzioni dirette e indirette all’esportazione, mettere fine al regime imposto dall’OMC che permette di brevettare le semenze. Queste le proposte spinte a suon di marce, scioperi, mobilitazioni, al punto da far “cambiare” la posizione di diversi governi del sud del mondo, non più succubi delle decisioni della cupola mafiosa che gestisce la “governance” globale.
Quanto accade nei sud del mondo dovrebbe aiutare a farci riflettere su come ci si possa ancora organizzare e provare a cambiare anche qui da noi, finto e sbiadito occidente ormai immerso in problemi di sopravvivenza economica e individualismo sociale. Per esempio si può immaginare come si possa costruire un percorso fatto di sperimentazioni anche sul fronte della produzione e consumo di alimenti di prima necessità. Alla stessa maniera potremmo lavorare per riuscire a creare saldature tra coloro che sono oggi precari e impoveriti da questo sistema e, pur essendo all’oscuro delle cause della crisi, non accettano il tunnel dei sacrifici e del “realismo” che la casta vorrebbe imporci. Legare queste necessità e queste lotte dandogli anima, per restituirle a quell’orizzonte sbiadito chiamato politica che possiamo riaccendere solo con la passione delle nostre idee e lo slancio delle nostre azioni.
martedì 26 agosto 2008
Sfuggire alla trappola della povertà
Cos’hanno in comune una vedova del Bangladesh con un figlio sordo, un minatore dodicenne del Kirghizistan, una coppia di contadini ugandesi con dodici bambini e una collaboratrice domestica sudafricana che perde la casa quando muore il marito e il lavoro quando si rompe una gamba? Sono intrappolati, bambini compresi, nella miseria cronica, anche quando i loro paesi mostrano segni di crescita economica...continua
Perù: vince il movimento indigeno amazzonico
Una grande vittoria per il movimento indigeno peruviano. Il congresso peruviano ha ratificato la decisione della commissione del congresso sull' amazzonia che ha stabilito l'abrogazione dei due decreti legislativi voluti dal governo Garcìa e da mesi al centro delle proteste delle comunità e dei movimenti.
Si tratta di un grande successo per le comunità native del Perù che hanno dimostrato attraverso la loro giusta lotta in difesa del proprio territorio e del diritto alla vita, di saper costruire partecipazione politica attraverso processi di resistenza democratici e pacifici. Non occorre dimenticare che, nonostante la vittoria sui due decreti incriminati, ne restano ancora molti in vigore che rappresentano una minaccia non solo al diritto di autodeterminazione dei popoli ma soprattutto alla sovranità nazionale del Perù.
I due decreti oggetto della misura abrogativa sono il 1015 ed il 1073, imposti senza dialogo ne accordo con i popoli indigeni, contrariamente a quanto sancisce la Convenzione 169 dell'OIT, sottoscritta dallo stato peruviano.
Questi decreti legislativi facilitavano la vendita delle terre e la consegna delle risorse naturali amazzoniche alle grandi multinazionali, in accordo al Trattato di lIbero Commercio con gli Stati Uniti, firmato dall'ex presidente Alejandro Toledo. Due anni e mezzo fa l'allora canditato alle presidenziali Garcia, aveva promesso di ritirare la firma peruviana da quasto accordo. Una volta eletto però questo signore è diventato il migliore alleato degli Stati Uniti insieme a Uribe in Colombia e alla Bachelet in Cile. Preoccupato per i mancati investimenti delle multinazionali come unico modo per risolvere il problema della povertà, il Sr. García ha tentato di utilizzare le terre degli indiani amazzonici usino asservendole al capitalismo.
In accordo alle leggi che di peruviano hanno solo il nome, chi possiede la terra in Perù sono solo i proprietari della materia fisica chiamata terra e non dell'aria, dei boschi, del sottosuolo dove c'è il gas, il petrolio, i minerali, ne delle acque dei suoi fiumi nella quale si trova l'oro. Con la loro saggezza millenaria i popoli indigeni ridono della stupidità peruviana occidentale. Per loro infatti la terra, il sottosuolo e l'aria fa parte di un'unità, come una è la vita degli esseri umani, animali e piante grazie alla madre terra, ai fiumi e ai mari. Separare gli esseri umani dai loro boschi e dai loro fiumi è un atto d'ignoranza punibile.
Dal 1974, i popoli indigeni hanno cominciato a recuperare parte del territorio che gli era stato espropriato dagli spagnoli e dai loro eredi. Le superfici recuperate corrono il pericolo di passare in altre mani, per la felicità del capitalismo e dei suoi sostenitori. Condividere il bosco con i fratelli scimmie, tartarughe o uccelli, è concepibile solo se si ha la luce della spiritualità indigena, nella quale la teorica superiorità dell'uomo e della ragione sulla natura, sono inesistenti ed inimaginabili.
I popoli indigeni hanno chiesto al nuovo governo il dialogo, con forza e fermezza, ma senza violenza.
Quando il presidente Garcia ha redatto i decreti legislativi non ha dato modo alle popolazioni interessate di capire ciò che stava succedendo. I dirigenti indigeni hanno sospeso il dialogo chiedendo una commissione che abbia capacità decisionale. Il governo ha risposto sospendendo le garanzie costituzionali, dando così libero sfogo alla violenza. Ciononostante, la determinazione delle comunità a continuare la loro lotta è riuscita ad ottenere dalla commissione il riconosciemnto della violazione palese che il governo stava commettendo. Una lezione in più che ci giunge dall'America latina. L'unico angolo del mondo da cui continuano ad arrivare concreti segnali di speranza per un altro mondo possibile.
L'integrazione Latinoamericana e il diritto agli alimenti
In tutto il mondo circa 800 milioni di persone soffrono di fame cronica e ogni giorno si registrano 40.000 decessi correlati alla fame. Ciò nonostante, da anni si investe sui biocarburanti, che com'è risaputo, utilizzano granaglie e altre colture destinate all'alimentazione per produrre carburati vegetali. Sull'argomento pare che i ricercatori, evidenziando l’aumento crescente della conversione di coltivazioni tradizionali in coltivazioni energetiche abbiano affermato che «Le scienze possono e devono contribuire nel fornire nuove soluzioni per risolvere la crisi energetica senza sottrarre il cibo ai poveri».
Da anni i ricchi paesi occidentali provano a destinare lo 0.7% del loro miliardario Prodotto interno lordo (PIL) in aiuti allo sviluppo. Nonostante la buona volontà proprio non riescono neanche ad avvicinare tale obbiettivo. Adesso il Sud del mondo, che finalmente nazionalizza le proprie ricchezze e le usa per lo sviluppo, con l’ALBA, che accoglie come nuovo membro l’Honduras, può aiutarsi da solo. Ecco come il petrolio venezuelano si trasforma in pane.
I peggiori del mondo, perfino peggio degli Stati Uniti, sono gli italiani: nonostante spergiurino da vent’anni di volere arrivare allo 0,7% (cifra raggiunta solo dagli scandinavi e gli olandesi) destinano in realtà appena lo 0,11% del PIL, il 90% del quale finisce comunque a imprese italiane impegnate all’estero.
Rispetto alla crisi alimentare attuale, alla crescita esponenziale di prezzi di alimenti di base, per la quale l’Occidente ha importanti responsabilità, dal Sud del mondo arriva una risposta concreta. Petrocaribe, un’organizzazione alla quale partecipano 18 paesi, voluta dal governo bolivariano venezuelano e incentrata sulla petrolifera nazionalizzata PDVSA, ha lanciato un’iniziativa per la sicurezza alimentare dei paesi membri. Il governo presieduto da Hugo Chávez da oggi destinerà 50 centesimi di dollaro per ogni barile di petrolio venduto (a un prezzo superiore ai cento dollari).
Vuol dire che solo da qui a fine 2008 e solo attraverso tale voce, il governo venezuelano destinerà 450 milioni di dollari alla sicurezza alimentare della regione.
Intanto nell’ALBA, l’Altenativa Bolivariana per le Americhe, della quale fanno parte Venezuela, Cuba, Nicaragua e Bolivia entra a far parte come membro pieno l’Honduras. Per il presidente Manuel Zelaya, un moderato di centro-sinistra, entrare nell’ALBA oggi vuol dire cercare alternative solidali al neoliberismo visto che le soluzioni tradizionali hanno fallito, ed è “è la miglior maniera di trovare soluzioni ai problemi storici del paese, in cerca di un modello di sviluppo che favorisca i poveri”.
Italiani grandi consumatori d'acqua
Si è conclusa recentementela settimana mondiale dell’acqua, indetta dall’Istituto Internazionale per le acque di Stoccolma. Fra i tanti argomenti trattati è emerso che l’Italia è fra i più grandi consumatori d’acqua.
Nel nostro paese la media è di 215 litri al giorno, contro i 2,5 litri che rappresentano la stima del fabbisogno per le esigenze di vita. In sostanza abbiamo un consumo 86 volte superiore a quello di cui avremmo bisogno. L’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito la soglia minima del fabbisogno idrico per persona in 1.700 metri cubi di acqua all’anno (per usi idropotabili, irrigui, industriali, energetici).
In parte, spiega l’Aduc, siamo responsabili dei consumi mondiali, visto che, come ha sottolineato la Fao, su 5 mila chilometri cubi d’acqua consumati nel mondo, circa 3.500 vanno all’agricoltura, 1.000 circa all’industria e circa 200 agli usi civili.
L'alternativa arriva dal rubinetto
Bere acqua in bottiglia è un'abitudine che costa cara all'ambiente e al portafoglio. L'alternativa esiste e viene dagli acquedotti con un vantaggi non indifferente per il portafoglio. Ipotizzando un costo medio di 30 centesimi al litro per quella imbottigliata, una famiglia di tre persone spende circa 175 euro l'anno per 194 litri a testa. Mentre la stessa quantità di acqua del rubinetto è praticamente gratis (con le tariffe più care d'Italia non si va oltre 1,3 euro).
Per quanto riguarda la salute non c'è problema. Come previsto dal decreto legislativo 31 del 2 febbraio 2001, i controlli dei gestori e delle aziende sanitarie locali sono molto frequenti (in grandi città come Milano e Roma si fanno ormai più analisi al giorno).
Per avere notizie più dettagliate sulla propria acqua si può leggere la bolletta, consultare i siti internet dei gestori o i venditori e le Asl di riferimento.
Se il problema è il sapore, invece, può bastare qualche accorgimento. Per togliere il cloro, ad esempio, visto che è una sostanza volatile è sufficiente lasciare l'acqua all'aria aperta per qualche minuto.
In commercio poi ci sono caraffe filtranti, impianti a osmosi inversa e addolcitori che eliminano cattivi odori e riducono gli inquinanti. I prezzi vanno da qualche decina di euro a oltre 2mila.
Infine, chi vuole l'acqua del rubinetto anche al ristorante, sul sito internet www.imbrocchiamola.org, può trovare l'elenco di esercizi pubblici che la servono a tavola.
Meno spesa per ogni goccia
Consumare meno acqua permette di alleggerire la bolletta ed evitare sprechi. Basta fare attenzione ai piccoli gesti quotidiani, come consigliano tre associazioni dei consumatori, Adiconsum, Altroconsumo e Federconsumatori. A partire dall'uso del bagno: utilizzare la doccia permette di consumare in media un terzo dell'acqua necessaria per lavarsi in una vasca, che può contenere circa 150 litri.
Un'altra indicazione da tenere presente è che bisogna stare molto attenti a non lasciare aperto il rubinetto inutilmente visto che dal getto della doccia, ad esempio, possono uscire anche 20 litri di acqua ogni minuto. Per quanto riguarda il water poi è bene sapere che ogni volta che si fa scendere l'acqua si consumano da 6 a 10 litri. Per evitare sprechi da questo punto di vista è consigliabile installare impianti a pulsante o a manovella che possono essere avviati e interrotti a seconda della necessità.
Per tutti i rubinetti di casa, invece, applicare un frangigetto può essere una buona idea per risparmiare. È un piccolo apparecchio, molto semplice da inserire all'interno dei tubi, che immette aria nel flusso. Con questo sistema esce un getto più leggero ed efficace.
I risparmi sono stati calcolati in migliaia di litri ogni anno (un metro cubo d'acqua, pari a mille litri, può costare da pochi centesimi a un paio di euro, a seconda del gestore preso in considerazione). Un frangigetto può essere comprato per pochi euro in un qualunque ferramenta o in un negozio di casalinghi.
Secondo una stima dell'Eni, installando i riduttori di flusso sui rubinetti di lavandini e doccia si ridurrà del 30-50% il consumo di acqua e dell'energia necessaria per riscaldarla con un risparmio di oltre 50 euro all'anno.
Passando agli elettrodomestici, e in particolare a lavatrici e lavastoviglie, utilizzandoli a pieno carico e con il ciclo economico si possono ottenere risparmi elevati. Chi non possiede una lavastoviglie e deve lavare i piatti a mano, può cercare di raccogliere l'acqua nel lavello invece di tenere il rubinetto sempre aperto.
Per evitare sprechi, inoltre, è fondamentale non trascurare mai la manutenzione di tutti gli strumenti attraverso i quali passa acqua. Ogni giorno, ad esempio, si possono sprecare fino a 100 litri per uno scarico o un rubinetto difettosi (se la perdita corrisponde a circa 90 gocce ogni minuto, il totale annuo raggiungerà addirittura 4mila litri).
Anche in giardino si può risparmiare: evitando, per esempio, di innaffiare le piante durante il giorno, soprattutto nella stagione estiva, visto che la terra calda favorisce l'evaporazione dell'acqua. Meglio farlo quando il sole è tramontato. Potrebbe valere la pena, soprattutto per chi ha un giardino molto vasto, di prendere in considerazione i sistemi automatici a micropioggia che possono essere regolati in tempo e quantità. Un altro sistema utile a raggiungere lo stesso scopo potrebbero essere gli impianti goccia a goccia, costruiti in modo da rilasciare lentamente l'acqua.
Un ulteriore piccolo stratagemma è riciclare l'acqua usata per lavare la verdura – o della doccia in attesa che diventi calda – per innaffiare.
Infine, attenzione a quando si lava la propria auto. Sarebbe meglio evitare di usare il tubo attaccato al rubinetto. Usare un secchio riempito, infatti, consente di risparmiare all'incirca 130 litri di acqua a lavaggio.
martedì 19 agosto 2008
Le donne fanno di più, col minimo di aiuti
Il dibattito internazionale sull’efficacia degli aiuti - modellati sui bisogni dei paesi in via di sviluppo piuttosto che sulle priorità dei donatori - riprenderà quando i ministri di oltre cento paesi e i membri delle agenzie per lo sviluppo, delle organizzazioni dei donatori e della società civile si riuniranno per il terzo Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti ad Accra, dal 2 a 4 settembre...continua
mercoledì 13 agosto 2008
Usa: Gli ospedali rimpatriano i 'sin papeles'
Quando la corte di appello della Florida ha emesso la sentenza nel 2004, Jimenez ere già in Guatemala. In quell'occasione il tribunale ha dato ragione al paziente, stabilendo che l'ospedale non aveva capacità giuridica per poter deportare qualcuno, cosa che può fare solo il Governo Federale, e che il centro non aveva fornito prove sufficienti a dire che Jimenez aveva ricevuto cure idonee. Non era la prima volta che un ospedale prendeva una decisione di questo tipo. A quanto sembra è una pratica in uso già da vari anni. Quando si tratta di trattamenti medici lunghi che nessuno paga, i centri di salute riportano gli emigrati nei loro paesi di origine, pagando il viaggio di tasca propria. Anche senza il consenso dei famigliari. I centri medici dicono che non procedono al rimpatrio fino a che i pazienti si siano stabilizzati e fino a quando non si sia trovata una giusta sistemazione nei loro paesi. Di fatto però nessuno supervisiona la condotta degli ospedali. In molti casi, per la mancanza di risorse nel paese d'origine, il trattamento è inesistente. Non ci sono statistiche, ma il The New York Times cita il caso di un ospedale di Phoenix che in un solo anno ha rimpatriato 96 pazienti. Jiménez è ora nel suo piccolo paese in Guatemala, assistito solo da sua madre di 72 anni. Non è probabile che torni negli Stati Uniti, ma la decisione della corte di appello della Florida ha segnato un precedente importante. Rende più difficile per gli ospedali continuare con la loro politica di rimpatrio illegale.