venerdì 28 novembre 2008

ONU, la violenza sulle donne è pandemica


Almeno una donna su tre nel mondo viene picchiata, costretta a subire violenza sessuale o altri abusi nell’arco della sua vita, e spesso il responsabile è qualcuno vicino alla vittima. Martedì scorso, attivisti e funzionari delle Nazioni Unite hanno chiesto ai governi di adottare misure più coraggiose per porre fine alla violenza contro le donne...continua

venerdì 21 novembre 2008

LIMA, 17 novembre 2008 (IPS) - Il diritto degli indigeni a disporre del proprio territorio è sacro nella maggior parte dei paesi latinoamericani, anche se spesso è soggetto a interpretazioni controverse...continua

Il commercio deve contribuire allo sviluppo dei popoli


Le organizzazioni sociali dell'America centrale sollecitano una rinegoziazione dei Trattati del libero commercio firmati tra paesi dell'America centrale e Stati Uniti. Le proposte di temi per rinegoziare sono state pubblicate in un documento, per il quale le organizzazioni stanno raccogliendo firme di sostegno all'iniziativa.
In una lettera, i dirigenti delle organizzazioni affermano che alcune settimane fa sono stati informati riguardo l'interesse di un gruppo di congressisti e senatori democratici ad insistere, a partire dall'elezione di Barak Obama come presidente dell'EEUU, su una possibile negoziazione del CAFTA-DR (sigla inglese di Acuerdo de Libre Comercio de América Central y Repùblica Dominicana).
Secondo i dirigenti la nuova politica è conseguenza delle dichiarazioni di Obama che ha detto più volte, in relazione all'America Latina, che vorrebbe stabilire relazione alla pari con i paesi latinoamericani e che una volta eletto, avrebbe rivisto tutti i trattati commerciali. Per promuovere questa iniziativa in America Latina, sono stati scelti un cittadino brasiliano, un ecuadoriano, un colombiano e, nel caso del Centro America, Ottón Solís, presidente della Commissione Politica del Partido Acción Ciudadana.
Nel documento in cui si espongono le loro proposte, le organizzazioni sottolineano che il commercio deve contribuire allo sviluppo dei popoli.
Secondo gli enti, il TLC firmato tra America Centrale, Repubblica Domenicana e Stati Uniti non contribuisce a combattere la povertà né a promuovere uno sviluppo equitativo: "Il trattato protegge le multinazionali statunitensi e lascia indifesi i nostri paesi, particolarmente in agricoltura, medicina e ambiente".
Le organizzazioni propongono di riformare il Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti affinché l'accordo non costringa i paesi centroamericani a convertirsi in semplici importatori di prodotti agricoli sussidiati:"Un TLC in cui, se la EEUU mantiene sostegni agricoli, i nostri paesi non dovranno eliminare le protezioni esistenti per la loro produzione alimentare".
Esigono inoltre un accordo che favorisca un politica di sicurezza alimentare nazionale e la messa a punto di politiche di sostegno verso i piccoli e medi produttori nazionali. Vogliono un TLC che non obblighi i paesi dell'America Centrale a garantire ai risparmiatori statunitensi mezzi straordinari di protezione che superano persino quelli che utilizzano negli Stati Uniti.
Un'altra proposta è un accordo che, nel campo della produzione di medicinali generici, non prolunghi la scadenza dei brevetti, né permetta un periodo addizionale per la presentazione dei dati: "Un TLC che non prolunghi il monopolio sul brevetto da parte da parte delle imprese farmaceutiche attentando alla sicurezza sociale e ad una maggiore libertà commerciale".
In relazione con la questione ambientale, le organizzazioni propongono un accordo che rispetti le varie iniziative di protezione dell'ambiente, promosse negli ultimi decenni dai paesi centroamericani, che non escluda le disposizioni delle leggi nazionali che regolano l'accesso alle risorse naturali e che includa i procedimenti per accordare concessioni e licenze per l'uso e lo sfruttamento dell'acqua e delle forze ad essa associate, dei boschi, delle risorse minerarie, delle risorse marine e della biodiversità in generale, così come i diritti delle comunità indigene legate a tali risorse.

"Ricostruiamo il Buon Vivere per tuti i popoli del Mondo"


I popoli indigeni dell’ Abya Yala si pronunciano contro il modello globale che causa sfollamento dai territori e criminalizzazione della protesta socialeMESSICO DF.
La sessione consultiva dei popoli indigeni che assiste alla VII Foro del Fondo per lo sviluppo dei popoli indigeni di America e Caraibi (Fondo Indigeno) si è pronunciata contro il modello economico globale, che provoca l'espropriazione e la distruzione dei territori indigeni e la criminalizzazione delle loro proteste, attraverso persecuzioni, assassinii, spostamenti forzati e rapimenti.La sessione del Fondo Indigeno che si è svolta a Città del Messico ha riunito i rappresentanti dei paesi di Nord, Centro e Sudamerica. I leader indigeni provenienti da tutto il continente hanno unito al loro rifiuto al modello economico, il loro appoggio e la loro solidarietà alle lotte dei popoli indigeni della Colombia e del Perù. Il loro pronunciamento è stato adottato all'unanimità dall’assemblea.Alla sessione hanno anche partecipato i rappresentanti di vari stati del continente. L’assenza dei delegati del governo peruviano è stata discussa sommariamente dai partecipanti. Miguel Palacín Quispe, coordinatore generale del Coordinamento Andino di Organizzazioni Indigene CAOI, che partecipa alla VII sessione, ha evidenziato che la globalizzazione neoliberale rappresenta un nuovo tentativo di conquista, simile a quella avvenuta 516 anni fa, che tentò lo sterminio dei popoli indigeni. ma se possibile più subdola. "Sotto la bandiera dello sviluppo impongono politiche distruttive per l'ambiente e i territori e violano i diritti individuali e collettivi dei popoli" - ha detto Palacìn.“Però siamo ancora vivi- ha sottolineato- e siamo passati dalla resistenza alla proposta. Noi popoli indigeni opponiamo a questa nuova invasione la nostra opzione di Buon Vivere per tutta l’umanità, basato sui nostri valori e pratiche ancestrali di complementarietà, equità e reciprocità tra gli uomini, i popoli e Madre Natura."
Sul tema alcuni giorni da il Fondo Indigena ha presentato tre pubblicazioni dal titolo "Buen vivir e Sviluppo con Identità" a La Paz, Bolivia, per contribuire alla riflessione e al dibattito sulle sfide e il contributo dei popoli indigeni nel continente americano. In uno scenario che prende come contesto di riferimento la concertazione e lo sviluppo identitario le tre pubblicazioni si basano sulla proposta di un modello di sviluppo plurale che promuove la convivenza, il rispetto, la solidarietà in armonia con la natura e l'arricchimento mutuo tra le culture e i popoli, attraverso il recupero delle tradizioni ancestrali.
Alla presentazione dei testi hanno partecipato leader indigeni di 12 paesi del continente, autorità del Fondo Indígena, rappresentanti del gobierno boliviano, delegati di organismi di cooperazione internazionale. I contenuti specifici si riferiscono a la visione indigena su tre temi specifici: Visione dell'ONU e Cooperazione Internazionale, Tendenze delle Instituzioni statali rispetto allo Sviluppo Indigeno in America atina e Caraibi e Globalizzazione: una piattaforma di esclusione per i popoli indigeni.México DF, 07 de Noviembre de 2008 Comunicaciones CAOI - COORDINADORA ANDINA DE ORGANIZACIONES INDÍGENAS- CAOI

lunedì 10 novembre 2008

Lamerica Latina secondo Obama


A poche ore dall'elezione di Obama, il mondo si chiede quali saranno realmente i cambiamenti nella politica estera e commerciale degli Stati Uniti. Poche settimane fa, Le Monde Diplomatique ha pubblicato una lunga analisi sulle prospettive dell'America Latina nel dopo Bush.Di seguito i punti principali del documento in italiano.


L'America Latina nell'epoca Obama


Laura Carsen – per Le Monde Diplomatique


Le politiche annunciate da Obama per l'America Latina coniugano conservatorismo e alcune rilevanti novità. In generale si auspicano buone possibilità per una revisione delle politiche adottate nelle ultime decadi.Il grande dibattito su quanto Obama potrebbe cambiare la disastrosa politica estera nordamericana generalmente è focalizzato sul Medio Oriente. Questo ha un senso preciso: nessun'altra regione ha patito tanto il peso della strategia della Sicurezza Nazionale di Bush, come dimostra ad esempio il bilancio delle morti in Iraq che parla di oltre 4 mila soldati americani e di circa 1 milione di iracheni.Esiste tuttavia anche un' altro dibattito politico meno visibile, ma non per questo meno sentito sull'America Latina.Nel documento di Obama - Una nuova cooperazione per le Americhe - si affronta il tema della politica estera nella regione a patire da tre punti principali, che richiamano le “quattro libertà” di F. D. Roosevelt: libertà politica, democrazia, liberazione dalla paura (sicurezza), e dai bisogni (povertà). La nuova equipe per la politica estera di Obama, è formata tanto da veterani duri quanto da nuovi pensatori, e sembra essere in costante evoluzione. Questa eterogeneità traspare nella proposta per l'America Latina, nel quale si evince tanto un' appoggio alla linea dura del Plan Colombia quanto nell'opposizione ad un accordo di libero commercio tra Washington e Bogotà.Il capitolo sulla libertà politica si concentra sulla politica cubana. Si propone di eliminare le restrizione alla mobilità verso l'isola e di liberare le rimesse monetarie. Il documento suggerisce che anche la fine dell'embargo è solo questione di tempo e non di principi.Altri elementi di rottura con la politica di Bush includono il tema” La Democrazia comincia in Casa” che promuove la lotta a ogni forma di tortura, e la chiusura delle prigioni dislocate all'estero e delle detenzioni indeterminate; cosi' come la chiusura del centro di detenzione di Guantanamo. Il tema “liberarsi dai bisogni” indica un maggior sostegno degli Stati Uniti per uno sviluppo “ dal basso verso l'alto (bottom up), si concentra infatti su temi quali la micro-finanza, sulla formazione professionale, e sui programmi di sviluppo comunitario. Nel programma viene sottolineata la necessità di sviluppare criteri di valutazione e di rinforzare la lotta contro la corruzione. Altri punti chiave includono il raggiungimento degli obiettivi del Millennio (Millenium Goals dell'ONU), la riduzione del deficit nell'educazione, in particolare per donne e bambine, e l'annullamento del 100% del debito per la Bolivia, Guaina, Haiti, Honduras, Paraguay e Santa Lucia; oltre all'avvio dei lavori per la riforma del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale.Tali proposte vanno ben al di là dei tradizionali programmi dei candidati democratici. La cancellazione del debito e le riforme delle Istituzioni Finanziarie Internazionali sono delle necessità per le quali i movimenti sociali si battono da anni. Il fatto pero' che tali questioni siano incorporate nel Piano di Obama per l'America Latina potrebbe indicare che egli ha dato ascolto a voci nuove ed è disposto ad includere questioni inerenti alla Giustizia Sociale o alla riduzione della povertà. Nell'integrazione economica regionale, il Programma di Obama segna una rottura con i precedenti paradigmi. Egli infatti invoca il “Commercio Equo”, l'alterazione del Nafta, l'opposizione agli accordi fra gli Stati Uniti e la Colombia, ed include la possibilità di offrire la cittadinanza per i lavoratori immigrati e le loro famiglie. Il suo programma per l'America Latina lancia concrete possibilità circa la partecipazione degli immigrati nella diplomazia pubblica.L'aspetto che comunque rimane più' controverso e conservatore è rappresentato dalle “Politiche della Sicurezza”. Esse hanno provocato diverse controversie tra progressisti latini, latino americani e gli analisti di politica regionale.Obama ha infatti lanciato il suo Piano poche settimane dopo l'attacco del governo colombiano a un accampamento delle Farc in Ecuador. La maggioranza delle Nazioni del continente, con l'eccezione della Colombia, appoggiata dagli Stati Uniti, hanno condannato l'incursione, per il fatto che essa violava il Diritto Internazionale e per il fatto che i guerriglieri non fossero stati attaccati per auto-difesa, ma colpiti invece nel sonno.L'incursione militare è stata l'opportunità per dimostrare quanto il Diritto Internazionale dovrebbe essere al di sopra delle alleanze ideologiche, ma Obama si è invece comportato dimostrando esattamente il contrario. Egli non soltanto ha giustificato l'attacco del Governo di Uribe, ma ha suggerito che:“Il Programma Andino contro la droga deve continuare ad essere implementato, di modo che possa rispondere efficacemente all'evolversi della situazione. Appoggeremo pienamente la lotta della Colombia contro le Farc. Lavoreremo con il Governo per porre fine al regno del terrore messo in atto dai paramilitari della destra. Appoggeremo anche il diritto di questo paese di attaccare i terroristi che cercano rifugio oltre le frontiere nazionali. E denunceremo i governi vicini che forniscono appoggio alle FARC. Questo comportamento deve essere sottoposto ad una condanna a livello internazionale e regionale. Qualora fosse necessario, adotteremo misure drastiche. La situazione così non può andare avanti.”L'entusiastico appoggio ad Alvaro Uribe, nella guerra contro le Farc non si è pero' tradotto in un cambiamento delle attitudini del governo colombiano. Uribe ha disdegnato Obama pubblicamente per la sua opposizione all'Accordo di Libero Commercio tra Stati Uniti e la Colombia. Inoltre egli aveva già organizzato una visita del candidato repubblicano McCain, esprimendogli il suo appoggio.Un'altra questione legata alla sicurezza è quella dei rapporti con il Messico. Il testo di Obama per l'America Latina appoggia il Plan Mexico e propone “nuove iniziative per garantire la sicurezza con i nostri vicini latino-americani, che si estenderanno anche all'America Centrale.”Il Messico e la Colombia sono le uniche grandi nazioni dell'America Latina governate dall'estrema destra. Appoggiare il modello militare e poliziesco incorporati dai Plan Colombia e Messico, e la tentazione di coniugare la cooperazione regionale degli Stati Uniti con il coinvolgimento militare, contraddice in maniera evidente i principi roosvetliani invocati nel resto del documento. In proposito al Plan Colombia Obama ha affermato: “Appoggio il Piano Colombia. Ma un'attenta osservazione è importante per sapere se il nostro aiuto alla Colombia si traduce in una corretta combinazione tra lotta al narcotraffico e l'appoggio agli sforzi legittimi per l'agricoltura.”In relazione al Plan Messico Obama sostiene:“Dobbiamo esaminare attentamente la recente richiesta del Governo in relazione al Piano Messico, Il Congresso ha già destinato US$ 465 milioni di dollari al Plan Messico ed è presente un'altra richiesta per lo stesso pari a US$ 400 milioni, che dovrebbero essere erogati nell'anno fiscale 2009.”Riferendosi all'America Latina Barak Obama ha concluso affermando che: “e' giunto il tempo per una nuova alleanza delle Americhe. Dopo anni di politiche disastrose è arrivato il momento di realizzare nuove leaderships per il futuro. Dopo diverse decadi di politiche che puntavano a Riforme dall'alto verso il basso abbiamo bisogno creare un'agenda che promuova la democrazia, la sicurezza e maggiori opportunità “dal basso verso l'alto. E' per questo che le mie politiche per l'America Latina saranno orientate da principi semplici: ciò che è giusto per le popolazioni delle Americhe è giusto per gli Stati Uniti.”Preso da solo, il contenuto di questa frase rappresenta una totale inversione di rotta nella storia delle relazioni del Nord America nella regione. Toccherà adesso stare a vedere se le promesse fatte non resteranno slogan elettorali ma si tradurranno in effettivi cambiamenti rispetto alle politiche adottate nelle scorse decadi.


Le Monde Diplomatique

lunedì 3 novembre 2008

Un ritorno all'agricoltura dopo il crollo finanziario?

Mentre il sud-est asiatico cerca una cura alla crisi finanziaria globale, i suoi leader cominciano a guardare al settore informale, in particolare all’agricoltura, come una possibile fonte di occupazione...continua

Più acqua e più sanità

“La sanità potrebbe essere la chiave per il successo o il fallimento degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG). "È una vera e propria bomba a orologeria pronta ad esplodere, in termini di salute e ambiente”, ha detto Damas Mashauri ai partecipanti ad un seminario su acqua e sviluppo sostenibile in corso a Johannesburg, Sud Africa...continua

giovedì 16 ottobre 2008

L'altro dio CHE E' FALLITO


MILLE MILIARDI PER SALVARE IL LIBERISMO DA SE STESSO, E ORA TUTTI A DIRE «REGOLE» Gianni Minà
Adesso voglio vedere se fra i coriferi del capitalismo a qualunque costo - umano, sociale, etico - ci sarà qualcuno che avrà l'onestà di dire che questa idea di società è miseramente fallita così com'era successo nell'89 al comunismo, e che quello che sta succedendo negli Stati uniti a banche e assicurazioni, che stanno trascinando nel baratro pensioni e risparmi di milioni di cittadini, è per l'Occidente uno sconquasso della stessa drammatica intensità della caduta del muro di Berlino per il mondo che si ispirava ai principi del marxismo.Perché questa fragilità, questa corrotta ambiguità del'economia di mercato era palese da tempo, eppure molti degli ultras del liberismo si ostinavano a sottolineare la «fine delle ideologie». Ma se scavavi tra le pieghe del discorso, scoprivi che in realtà l'unica ideologia che questi ultrà reputavano morta e da seppellire era quella comunista. E anche quando erano costretti ad ammettere che in nome del libero mercato erano stati compiuti crudeli genocidi (come in Africa o in America latina), con aria falsamente ingenua erano pronti a chiederti: «Ma cosa mi offri in cambio? Non esiste un'alternativa».E quindi si poteva mentire al mondo per fare le guerre, vendere armamenti, saccheggiare risorse, o si poteva condannare alla fame e alla miseria interi continenti, magari per difendere solo i privilegi e le sovvenzioni ai contadini di Stati uniti, Francia o Italia, o ancora si poteva continuare a rapinare le richezze dell'umanità meno attrezzata, meno pronta ad affrontare le sfide capziose del mercato.Perché annientare l'80% dell'umanità per le logiche dell'economia capitalista era ed è evidentemente più accettabile, più democratico, meno scandaloso che morire in un gulag o non avere abbigliamento firmato o McDonald's. Così come non è inquietante se a controllare l'informazione, a ideologizzare e indirizzare la tua vita non sono ottusi burocrati di partito, ma la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochissimi, che hanno il controllo di apparecchiature degne del Grande fratello di Orwell.Ci avevano detto, e quasi stavamo per crederci, che il capitalismo era l'unica salvezza dell'umanità, un sistema che aveva una soluzione per tutto, perché comandava l'infallibile mercato e la ricetta si era rivelata indiscutibile: quando l'economia non funzionava, bastava privatizzare e tutto si sarebbe risolto.Così quando il governo di Washington dell'ineffabile Bush e del suo vice, l'affarista Cheney, ha deciso, fregandosene dell'ideologia liberista fino a ieri Vangelo, di salvare, nazionalizzandoli, i due colossi dei mutui Fannie Mae e Freddy Mac (l'8 settembre) e pochi giorni dopo (il 17 settembre), con un intervento della Banca centrale ha tolto dal gorgo dal fallimento l'Aig (American International Group), il gigante delle assicurazioni, è stato chiaro che tutta la retorica del «più mercato - meno stato» era una burla, un'escamotage dei mercati finanziari per privatizzare, quando c'erano, i guadagni e socializzare le perdite.Una presa per i fondelli colossale, senza il minimo pudore, se uno come Giulio Tremonti, il ministro dell'economia di un governo come quello di Silvio Berlusconi, che le regole non le ha mai rispettate, si è subito adeguato come un burocrate sovietico: «Dalla crisi si esce con più intervento pubblico. Se il male è stato l'assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole». Neanche un ministro democristiano dell'epoca della Cassa del mezzogiorno avrebbe potuto cambiare abito così in fretta.Ma lo stesso atteggiamento hanno tenuto i più prestigiosi giornali europei: La Repubblica, quotidiano italiano un tempo di sinistra, titolava il 20 settembre in prima pagina, con assoluta disinvoltura: «Terapia Bush, Borse in festa». Di fatto presentando in positivo quello che fino a ieri, nel capitalismo, era considerata un'eresia: l'intervento in extremis dello stato nel mercato, ovvero l'ultima, disperata mossa politica di quello che molti cittadini nordamericani giudicano da tempo come il peggior presidente che il paese abbia avuto nell'ultimo secolo. La decisione del governo Bush scarica sui contribuenti americani, come fa rilevare sempre su La Repubblica Federico Rampini, un onere oggi incalcolabile e potenzialmente illimitato, pur di frenare la catena di crac delle maggiori istituzioni finanziarie e le conseguenti pericolose ondate di panico.Ma quest'analisi onesta e realistica non ha suggerito un titolo meno trionfalistico per il piano da mille miliardi di dollari (in proporzione più del piano Marshall varato nel 1947 dal presidente Truman per aiutare l'Europa a rialzarsi) messo in marcia dal ministro del tesoro Usa. D'altronde, il mondo della finanza neoliberista ha sempre preferito illudere, nascondere e mascherare, sperando follemente che nulla alla fine cambiasse.Pochi anni fa, la benemerita Fondazione Ambrosetti che organizza le giornate di Cernobbio, sul lago di Como, dove si incontra ogni anno la creme de la creme dell'economia liberale (o presunta tale) mi contattò perché sentiva l'esigenza di far ascoltare, per una volta, una voce dissonante a una compagnia di giro dove i primi attori erano quasi sempre Shimon Peres, Henry Kissinger o perfino l'ex premier spagnolo Aznar, nemico giurato di tutte le ricette sociali antiliberiste.Avrebbero voluto invitare il presidente cubano Fidel Castro: «Non condividiamo la sua linea intransigente - mi dissero - ma forse è arrivato il momento di confontarsi con le ragioni di chi, prima di papa Wojtyla, affermò, fin dalla metà degli anni 80, che il debito estero di molte nazioni del Sud del mondo era immorale e impagabile». Una scelta fuori dal pregiudizio. Li misi in contatto con l'ambasciatore cubano in Italia, anche se ero scettico sulla possibilità che quell'idea sarebbe stata accettata dagli abituali frequentatori del meeting di Cernobbio.Il presidente cubano non aveva spazio nella sua agenda per aderire a quell'invito e allora io consigliai ai dirigenti della Fondazione Ambrosetti di chiedere aiuto a Eduardo Galeano, coscienza critica dell'America latina e di quello che chiamano il Terzo mondo, che proprio in quei giorni usciva anche in Italia con un libro emblematico, «A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia». Eduardo accettò l'invito e inviò in anticipo il testo del suo intervento, basato su alcune delle brevi e paradossali composizioni, spesso intrise di ironia, che si susseguono nei suoi saggi e sono tipiche del suo modo di raccontare la storia e il mondo. Concedette anche un'anteprima al giornale La Stampa di Torino, che uscì la mattina in cui Galeano avrebbe dovuto intervenire.Avrebbe. Perché, con un certo imbarazzo quelli della Fondazione avvisarono la sera prima lo scrittore de «Le vene aperte dell'America latina» e ora di «Specchi, una storia quasi universale» che, per l'obbligatorio inserimento nel programma di un ospite politico fino a quel momento in forse, non ci sarebbe stato più spazio per il suo intervento. Galeano la prese con un sorriso disincantato: «Quelli dell'economia neoliberale considerano le loro convinzioni un dogma che non può essere discusso. Per questo li hanno definiti 'i paladini del pensiero unico'. Ma non si illudano, sarà la storia a smentirli».Così a quanto pare è stato, anche se finora è mancato il coraggio di dire, chiaro e tondo, che nel mese di settembre del 2008 è crollato anche il muro del capitalismo. D'altronde non poteva che finire così. Il neoliberismo si regge in piedi continuando ad ammucchiare bugie, con i giornalisti, incapaci, la maggior parte delle volte, di tenere la schiena dritta, e invece tesi pateticamente a sostenere argomenti che non stanno in piedi e a scrivere parole in libertà per giustificare l'ingiustificabile.È sufficiente dare uno sguardo alla Direttiva del Rientro, approvata lo scorso 18 giugno dal Parlamento europeo, per capire quanto sia in decomposizione la democrazia in un'Europa pavida e impaurita, mentre in altri continenti, come l'America latina, fino a ieri carente di diritti per tutti, spira un'aria nuova, dove il riscatto di nazioni indigene come Bolivia ed Ecuador comincia proprio da una riscrittura rigorosa e seria di una Costituzione che rispetti tutti. Non solo, come avveniva fino a pochi anni fa, le oligarchie bianche e predatrici.Proprio Galeano, nella cerimonia in cui, in Paraguay, il giorno dell'assunzione dell'incarico di presidente da parte di Fernando Lugo, è stato dichiarato Cittadino illustre del Mercosur, non ha evitato il sarcasmo riguardo all'ipocrisia delle nazioni del Vecchio continente: «L'Europa ha approvato da poco la legge che trasforma gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi», ha aggiunto. «L'Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte la porta sul naso degli invasi una volta che questi ricambiano la visita».Per capire quanto è grande questa crisi di credibilità dell'Occidente, è sufficiente considerare come, negli ultimi tempi, dai media di casa nostra è stato raccontato il braccio di ferro che il giovane presidente della Bolivia, Evo Morales, ha intrapreso contro i prefetti secessionisti delle ricche provincie orientali del suo paese, per ora bloccati, senza mortificare la democrazia, nelle loro strategie eversive sostenute, oltre che dalla Cia e dalla peggiore diplomazia nordamericana, dagli eredi dei vecchi ustascià croati, riparati, dopo la seconda guerra mondiale, nella Bolivia delle dittature militari e delle centinaia di colpi di stato.Con questi figuri ci sarebbero perfino vecchi attrezzi del neofascismo golpista italiano come Marco Marino Diodato, che nella notte tra l' 11 e il 12 settembre, avrebbe organizzato gli squadroni della morte legati ai gruppi civici che si battono, con la scusa dell'autonomia regionale, contro l'idea di nazione e di democrazia di Evo Morales. Nel massacro di El Porvenir (nella provincia di Pando) sono stati uccisi quindici contadini che si recavano ad una manifestazione di appoggio al presidente.Con chi dovrebbe stare la stampa democratica dell'Occidente? Sarebbe facile rispondere con il giovane presidente boliviano. E invece, per non dispiacere alle spericolate politiche dell'amministrazione Bush in America latina come in altre parti del mondo, i media non sanno nascondere una certa condiscendenza per la secessione, per il tentativo di destabilizzazione che l'ex ambasciatore Usa Goldberg, ora rispedito a Washington, ha perseguito, finora senza risultati concreti, in questi mesi intensi e sofferti del paese in cui si immolò Che Guevara. E così hanno parlato di «paese diviso in due», di «pareggio», di «stallo», pubblicando cartine geografiche sul consenso politico del presidente nel paese chiaramente fuori dalla realtà, come dimostra l'annuncio di avvio di un dialogo da parte dei prefetti secessionisti ribelli,La linea da tenere sull'argomento, come su tutta la febbre di riscatto che cresce in America latina, sempre più lontana dall'essere il «cortile di casa» degli Stati uniti, la dà El País, il potentissimo quotidiano spagnolo che ha ramificazioni e interessi in tutto il Cono sud. E lo fa quasi sempre con le parole astiose di Mario Vargas Llosa, uno scrittore straordinario che però, come tanti, non si dà ancora pace di essere stato in gioventù un militante comunista, e quindi non apprezza il vento di cambiamento che soffia nel continente.Dario Fertilio, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, e Angelo Panebianco che gli ha dedicato la sua rubrica sul magazine dello stesso giornale, si dolgono così del fatto che, al contrario di quanto succede con gli scritti politici di García Marquez, di Luis Sepúlveda e di Eduardo Galeano, quelli di Vargas Llosa non vengano fatti conoscere in Italia. La colpa viene data ovviamente a una cronica malattia della nostra editoria che, secondo Panebianco «continua a essere convinta che 'cultura' sia sinonimo di 'sinistra'». Perché, non è così professore? E, mi perdoni, l'editoria italiana, a cominciare dal colosso Mondadori, a chi è in mano? Forse, nella logica neoliberista ora improvvisamente in crisi, il Vargas Llosa saggista non è pubblicato solo perché non è ritenuto interessante per il mercato. So che è sconveniente, ma forse è proprio questa la ragione di questa dimenticanza, anche se lei parla di «offerta politicamente monocorde che influenza e plasma la domanda». Tanto per la verità, professore, e per non prendere per i fondelli i lettori...
Dal "Manifesto" del 7 ottobre 2008

martedì 14 ottobre 2008

Altre otto donne stuprate e uccise, 607 dall'inizio dell'anno

Altre otto donne sono state uccise in Guatemala negli ultimi tre giorni, portando a 607 il bilancio di quelle uccise dall'inizio dell'anno. Lo ha riferito ieri sera la polizia guatemalteca. I cadaveri di due ventenni, stuprate e poi uccise a colpi di pistola, sono stati trovati a Escuintla, 60 chilometri a sud della capitale. Altre due donne, tra cui una incinta di cinque mesi, sono state uccise in un piccolo paese del sud, Chiquimila. Le altre vittime sono una studentessa di 17 anni e una donna di 47 ammazzate lunedì, sempre a colpi d'arma da fuoco, in un quartiere periferico di Città del Guatemala. Stessa sorte è toccata ieri a due donne, i cui corpi sono stati rinvenuti a Mixco e a Villa Canales.

Il vero costo degli Agro-Combustibili

Una nuova relazione svela il costo reale degli agrocombustibili in America Latina La rapida espansione degli agrocombustibili in America Latina porta uno scenario di grandi benefici imprenditoriali e di scarsi benefici per la popolazione locale, secondo una nuova relazione presentata dagli Amigos de la Tierra Internacional. Il nuovo studio, intitolato "Fomentando la distruzione in America Latina", riflette gli sviluppi attuali e futuri in vari paesi dell'America Centrale e del Sud, dove la produzione di agrocombustibili sta aumentando in maniera esponenziale per soddisfare i mercati interni e per soddisfare la richiesta di diesel e di benzina dell'Europa e degli Stati Uniti. La relazione mostra come l'aumento delle terre destinate agli agrocombustibili significhi l'aumento della deforestazione e la distruzione di flora e fauna, l'esasperazione dei conflitti della terra, l'espulsione delle comunità rurali, con il conseguente impoverimento delle condizioni lavorative e la contaminazione ambientale. Paul de Clerck, portavoce di Amigos de la Tierra Internacional, ha detto: "Coltivare agrocombustibili su vasta scala in America Latina è assolutamente insostenibile e non aiuta la popolazione locale ne l'ambiente. Gli agrocombustibili portano a far si che le multinazionali agricole, gli speculatori finanziari ed i grandi proprietari terrieri ottengano grandi benefici sulle spalle della popolazione e dell'ambiente". Lo studio evidenzia che: - I prodotti altamente dipendenti dai pesticidi chimici, dai fertilizzanti e dalle grandi quantità di acqua , stanno diventando monocoltivazioni. Queste grandi piantagioni stanno rimpiazzando le altre attività agricole nelle zone delicate come le selve e pianure e danno come risultato la deforestazione generalizzata, oltre a minacciare la biodiversità. - Le condizioni di lavoro sono molto povere, considerate di moderna schiavitù. E' considerato normale l'impiego di lavoratori infantili. La speculazione sui terreni sta portando all'innalzamento dei prezzi della terra e la produzione degli agrocombustibili cancella la produzione alimentare a livello locale. - Si stanno spostando le comunità rurali per lasciare spazio alle piantaggioni, aumentando i conflitti sui diritti della terra in tutti i paesi. La produzione degli agrocombustibili si attua in maniera poco trasparente e democratica, senza nessuna pianificazione sull'uso della terra e in qualche caso con l'utilizzo della violenza e l'implicazione dei gruppi paramilitari. - Le strette connessioni tra affari e politica fomentano i governi che presentano politiche che attraggono le multinazionali agricole, come le detrazioni fiscali, diritti della terra e infrastrutture. Questa stretta relazione implica anche i conflitti d'interesse, la corruzione e i governi che fanno finta di non guardare le attività illegali dei proprietari terrieri e dei produttori. - I grandi produttori, commercianti e investitori vedono come aumentano i loro benefici grazie all'ampliamento delle vendite delle materie prime, investimenti agricoli e guadagni finanziari delle speculazioni terriere. Le multinazionali sono sempre più implicate in tutti i paesi dell'America Centrale e del Sud esaminati in questo studio. - "Il conflitto sociale ed i problemi ambientali si esaspererebbero con gli obiettivi dettai dall'Unione Europea per l'uso degli agrocombustibili. L'espansione delle piantagioni su vasta scala con le coltivazioni per la produzione degli agrocombustibili non è sostenibile. L'aumento della domanda europea di agrocombustibili non può essere una soluzione alle crisi climatiche ed energetiche. La soluzione è ridurre il consumo e risparmiare energia", ha aggiunto Lucia Ortiz, Coordinatrice degli Amigos de la Tierra. - Il Parlamento Europeo vota domani alla Commissione dell'Industria sull'introduzione degli agrocombustibili nell'Unione Europea. Questo obiettivo dato prima per il 10% al 2020, ha avuto una modifica con la votazione nella Commissione di Medio Ambiente lo scorso mese di luglio. Varie organizzazioni ecologiste, di cooperazione e altri collettivi hanno inviato una lettera congiunta agli Eurodeputati spagnoli sollecitando un loro voto negativo. David Sánchez, responsabili dell'agricoltura di Amigos de la Tierra Spagna, ha detto: "Abbiamo bisogno che l'Unione Europea smetta di promuovere una produzione così deleteria. Gli agrocombustibili non sono la soluzione per i nostri problemi climatici ed energetici ed inoltre aggravano i problemi sociali, ambientali e dei diritti umani già esistenti nei paesi del Sud".

Le riflessioni dei popoli indigeni


"Prima di essere vittime siamo popoli con autonomia e governi propri" Riflessioni presentate dai delegati del popolo Wayúu, Arhuaco (Ika) e Wiwa, partecipanti alla Quinta Assemblea Congressuale Regolamentaria dello Statuto delle Vittime della Violenza, tenutasia Valledupar (Cesar), il 12 settembre 2008. Trattare allo stesso modo ciò che è diverso costituisce comunque una forma di discriminazione e di razzismo. Si spera che tra i principi generali del progetto di legge insieme a quello di uguaglianza, ci sia anche il riconoscimento ed il rispetto della diversità etnica e culturale del paese. In questo contesto è necessario che si chiarisca che l'attenzione alle vittime dato dal progetto di legge deve compiersi con un diverso punto di vista, che tenga conto della cosmovisione, dei valori identitari e degli usi e costumi dei popoli indigeni e degli altri gruppi etnici (afrodiscendenti, Raizal e Rom). Il progetto di legge deve evitare a tutti i costi l'assunzione di posizioni che neghino l'esistenza del conflitto armato in Colombia e le azioni del paramilitarismo. La pretesa del governo nazionale e dei diversi settori politici uribisti di negare il conflitto armato in Colombia, non aiuta a garantire i diritti alla verità, alla giustizia e al risarcimento delle vittime. Si pretende di negare che le strutture paramilitari continuino ad attuare, sotto nuove forme e con nuovi contenuti. Molte delle vittime delle Aquile Nere o delle denominate dal Governo Bande emergenti criminali (BACRIM), rimangano fuori da questa legge, per quanto secondo la legge governativa queste non sarebbero vittime del paramilitarismo ma delle bande mafiose e delinquenziali. E' molto importante che l'universo delle vittime si sia ampliato fino a comprendere coloro che lo furono per colpa di agenti dello Stato e della Forza Pubblica, visto che fino ad ora venivano escluse da tutte le norme esistenti. E' comunque necessario che nel testo di legge rimanga stabilito con chiarezza la responsabilità dello Stato, di azione o di omissione, nelle gravi violazioni ai Diritti Umani e nelle infrazioni al Diritto Internazionale Umanitario che si sono verificate. Il progetto di legge deve stabilire chiaramente delle distinzioni tra quello che costituisce l'aiuto umanitario ed il riconoscimento dei diritti economici sociali e culturali (DESC), i quali sono funzione dello Stato, da tutto quello che riguarda la giustizia integrale. Si stima che le norme e le disposizioni legali contenute nel decreto 1290 del 22 aprile 2008 "per mezzo del quale si crea il Programma di Risanamento per via amministrativa" è una maniera di abbassare gli standard dei diritti che risarciscono le vitime. Bisogna aggiungere che l'armonizzazione di queste due norme finisce per generare una grande ambiguità che finisce per penalizzare i diritti delle vittime. Anche se il progetto di legge segnala la strada per il risanamento integrale, si riferisce ad un ambito individuale e, in questo senso, dice molto poco in riferimento al collettivo. In questo senso i popoli indigeni e gli altri gruppi etnici sentono un grande vuoto e continuano ad essere isolati com soggetti collettivi di diritto. I danni causati ai nostri patrimoni culurali ed intellettuali, non possono essere risarciti e riparati adeguatamente, anche perché da un punto di vista economico non si possono contabilizzare con facilità. Bisogna chiarire che le basi di un eventuale risarcimento dei popoli indigeni e degli altri gruppi etnici, si basano sulle adeguate garanzie per il recupero, il consolidamento ed il pieno controllo dei loro nostri ancestrali. Anche se nel testo di legge si menzionano meccanismi per la restituzione delle terre, questo non è sufficiente per i nostri popoli, visto che non si fa riferimento esplicito ai nostri territori, i quali hanno una speciale connotazione e significato per tutti i popoli indigeni e gli altri gruppi etnici. Il concetto di Consulta Previa dovrebbe essere ingrandito fino ad includere il Consenso Previo, Libero ed Informato che da maggiori garanzie, visto che la Consulta Previa ha finito per diventare un mero procedimento amministrativo. Il Consenso Previo, Libero ed Informato permette ai popoli indigeni e agli altri gruppi etnici di opporsi a qualsiasi tentativo lesivo nei confronti delle nostre culture e cosmovisioni.

12 Ottobre: 516 anni di oppressione dei popoli Americani


12 Ottobre: 516 anni d'invasione, colonizzazione ed oppressione dei popoli del continente Americano Il 12 ottobre si compiono 516 anni d'invasione, colonizzazione, oppressione e dominazione dei popoli indigeni di Abya Yala, popoli ancestrali che oggi si trovano organizzati in comunità, popoli che hanno resistito ed affrontato le politiche di etnocidio, genocidio e saccheggio delle proprie ricchezze. Il 12 Ottobre del 1492, giorno in cui Cristoforo Colombo arrivò in una piccola isola del continente americano e vi prese possesso illegale in nome di Dio, dei Re di Castiglia e di una religione, non avvenne nessuna scoperta come si è affermato per nascondere il più grande genocidio della storia dell'umanità che generò la morte di 20 milioni di aborigeni, la scomparsa di civiltà centenarie, il saccheggio delle loro ricchezze e la distruzione delle loro culture. Questo fatto segnò il punto di partenza della resistenza indigena che nonostante sia stata soffocata a sangue e fuoco, è culminata tre secoli dopo in una ribellione che seppellì per sempre l'impero spagnolo. La maggior parte degli storici hanno denominato in maniera semplicistica questo giorno come quello della "Scoperta" e indicato come tappe delle "scoperte minori" tutte le spedizioni che a partire da questa data e fino al 1526, hanno realizzato i naviganti e gli avventurieri spagnoli che hanno invaso le isole dei mar dei Caraibi e della costa venezuelana. Non considerando che queste terre e altre più a nord e a sud erano già abitate da civiltà come quella azteca, inca, chibcha ed altre estinte come quella maya, avanzate tanto quanto quelle del vecchio continente. E adesso vogliono rimediare all'errore dicendo che fu "un incontro di due culture", come se fosse stato un pacifico atto protocollare estraneo ad ogni azione distruttiva e genocida. Nonostante la fine della dominazione spagnola, nell'attualità le comunità (in particolare le comunità indigene e contadine) continuano a pagare le conseguenze della politica neoliberale. Nella ricerca e nella concentrazione della ricchezza stanno distruggendo la natura attraverso lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali. Tutto ciò è la causa dello sfollamento delle comunità e del loro abbandono forzato dei territori. La madre Terra ha vita e ci chiede a gran voce di salvarla dalla sua eminente distruzione e con essa dalla nostra.Nella cornice della Resistenza e Mobilitazione Continentale dei popoli dell'Abya Yala, in difesa dei Territori e dei Beni Naturali, diciamo basta alla politica di Criminalizzazione e Si alla costruzione di un Perù Plurinazionale. I popoli indigeni hanno convocato per i giorni 11 e 12 ottobre l'"Assemblea Nazionale del Movimento Sociale Incontro dei Popoli", nella città di Lima. Negli stessi giorni si tiene in Italia, a Genova, una mobilitazione convocata dal Comitato per il Giorno della Memoria del Genocidio Indigeno (composto da decine di associazioni e di organizzazioni tra le quali A Sud), per chiedere che l'11 ottobre sia riconosciuto come la Giornata della Memoria del Genocidio Indigeno.

I 40 della Teologia della Liberazione


Intervista a Padre Gustavo Gutiérrez, di Angel Dario Carrero


- Quando ha iniziato ad assumere come punto di partenza della teologia, la realtà della violenza e della povertà in America Latina e nei Caraibi?

– Ho cominciato a lavorare nel marzo del '64. Ci fu una riunione convocata da Iván Illich. Lo ho conosciuto quando stava ancora a Porto Rico nel '60. E' stato Ivan a organizzò una riunione molto informale a Petrópolis per farci vedere il lavoro fatto dalla teologia in America Latina.


– E quale è stato il suo contributo?

– Ho parlato di teologia come una riflessione sulla fede e la vita cristiana. Quello che poi ho formulato più tardi come riflessione critica sulla prassi alla luce della fede.


– La prima cosa che sorge è la decisione di un metodo che prende le mosse dalla vita reale per illuminarla alla luce della Parola ed aprire cammini concreti di liberazione?

– E' proprio così. Io ho trascorso praticamente tutti i miei studi di teologia preoccupatissimo dalla questione del metodo. Da lì la frase: "il nostro metodo è la nostra spiritualità".


– Il tema della vicinanza ai poveri non è una novità, ma l'indagine sulle cause della povertà e la lotta contro la povertà come parte dell'identità cristiana si che lo sono. Quando è iniziata questa transizione?

– Mi hanno invitato a parlare sulla povertà a Montreal nel 1967. Volevano prendere le distanze da Voillaume, l'autore di "Nel cuore delle masse", perché evitava qualsiasi prospettiva sociale in torno alla povertà. Ma la verità è che non si può evitare la questione sociale. Raccontai di tre nozioni bibliche sulla povertà: per primo la povertà reale o materiale, vista sempre come un male. La seconda è la povertà spirituale, come sinonimo d'infanzia spirituale. Lo povertà spirituale è mettere la mia vita nelle mani di Dio. Lo sperpero dei beni è la conseguenza della povertà spirituale. E la terza dimensione è la solidarietà con i poveri, contro la povertà. Voillaume diceva che bisognava essere poveri. Si, molto bene, ma per quale motivo? Che senso ha? Non è solo per santificarsi. Bisognava pensare a cosa poteva significare per l'altro.


– Qualche altro elemento importante di questa prima fase?

– Una preoccupazione: come annunciare il Vangelo oggi? La teologia si fa per annunciare il Vangelo, al servizio della Chiesa, della comunità. Ci sono molte facoltà che pensano alla teologia come una metafisica religiosa, non come annuncio storico di liberazione.


– Quando comincia a chiamarsi Teologia della Liberazione questo nuovo modo di pensare la fede dalla prospettiva del povero e dell'escluso?

– Il 22 luglio del 1968 a Chimbote, in Perù. Mi chiesero di parlare di "teologia dello sviluppo" e mi negai. Gli dissi che avrei parlato di teologia della liberazione, che era più pertinente a questo contesto. Un'altra cosa che era di moda era la "teologia della rivoluzione", dalla quale presi le distanze. Il pericolo era quello di cristianizzare un fatto politico.


– A differenza di altri, lei non è mai stato d'accordo con partiti o gruppi come la Democrazia Cristiana o con i Cristiani per il Socialismo, anche se accentuava la dimensione politica della fede. Perché?

– Non mi è mai piaciuto che si usasse cristiano come aggettivo. Cristiano è un sostantivo. Ho sempre detto: "Sono cristiano per Cristo, non per il socialismo". Che come cristiano qualcuno scelga di essere socialista è un'altra cosa, ma non si può dedurre il socialismo dal cammino della Bibbia. Dalla Bibbia si può dedurre la giustizia, il sostegno ai poveri. La gente quando non lo capisce dice: "Senti, ma tu neghi la politica, sei contrario". Io rispondo che credo anche nell'autonomia del sociale e del politico.


– Quando è iniziata l'idea di formare il libro che si trasformerà nel testo fondante della teologia latino americana contemporanea: teologia della liberazione. Prospettive?

– In realtà non pensai a scrivere un libro vero e proprio. Uno lavora ai temi che gli interessano e poco a poco ne esce. All'inizio del 1969, poco dopo Medellin, una commissione ecumenica sulle tematiche dello sviluppo mi invitò a Ginevra. Quindi ripresi il documento che avevo scritto a Chimbote e lo ampliai.


– C'è stata qualche offerta concreta da parte di qualche casa editrice?

– No, ma in quel momento passò Miguel d'Escoto, di Maryknoll, che aveva appena fondato Orbis Books. Vedendo il libro mi disse: "Lo pubblico". E' stato il primo libro pubblicato da questa casa editrice. Lo ha fatto tradurre e lo ha pubblicato nel 1973. E' stato il libro più venduto di questa casa editrice. Poi è passata la casa editrice di Sígueme, della Spagna, ed è successo lo stesso. Un altro che si interessò fu Gibellini. L'edizione italiana è precedente a quella spagnola. E' già tradotta in dieci o dodici lingue, tra le quali c'è il vietnamita ed il giapponese.


– Quali sono le critiche principali che ha ricevuto il libro?

– Io direi che più che al libro, le critiche erano già nei confronti della Teologia della Liberazione. Già tanta gente scriveva. Si criticava la visione marxista dell'analisi della realtà, ma io non mi sono sentito chiamato in causa. Adesso l'opposizione più forte che abbiamo avuto non è stata dentro la Chiesa ma in qualche componente della società civile, nei poteri di fatto, economici, militari, politici.


– La discussione aperta è segno di una teologia che dice qualcosa all'uomo e alla donna di oggi, che genera dialogo critico non solo all'interno della chiesa ma anche nella società.

– Buona parte delle reazioni sono nate dall'accoglienza che ho avuto. Se fossi rimasto in un ambiente di intellettuali non avrei avuto questo impatto. Ho avuto un'accoglienza dalla base, anche con espressioni che non mi hanno mai convinto, ma che dimostrano la buona volontà, che dicono: "Io sono della Teologia della Liberazione". Ma la Teologia della Liberazione non era ne è un club al quale uno s'iscrive, ne un partito. C'era chi si decantava un membro e dopo dicevano quello che volevano e non sempre corrispondeva a quello che si pensava. Sono cose inevitabili.


– C'era anche la necessità di trovare dei difetti ad una teologia che proveniva dal sud.

– Un giornalista statunitense mi ha chiesto: "Che cosa pensa la Teologia? Se uno si lascia trasportare solo da quello che scrive la stampa sembra che lei sia stato condannato dalla Chiesa. E non è vero. E' curioso. Nel mio caso non c'è stata mai condanna, e neanche un processo. Quello che c'è stato è una richiesta di dialogo, domande a cui sono stato sempre disposto a rispondere.


– Le sembra valido questo tipo di dialogo?

– Ho sempre creduto che la teologia si fa all'interno della Chiesa. Nella Chiesa ci sono diversi carismi. A chi scrive di teologia gli si può chiedere che dia ragione della sua fede, così come diamo ragione della nostra speranza. A questo livello di domande non bisogna offendersi.


– Quanto è durato il dialogo?

– E' iniziato nel 1983 e si è concluso in vari modo, ma ufficialmente cinque anni fa. Durante molto tempo tutto è rimasto in silenzio. Non ci fu nulla con me.


– Che dice il testo ufficiale?

– L'espressione è che tutto si concluse in modo soddisfacente.


– Ci sono stati vari incontri faccia faccia con il cardinale Joseph Ratzinger?

– Si, alla maggior parte di loro non sono stato convocato ma io stessi presi l'iniziativa di andare. Ratzinger è un uomo intelligente, educato e dentro della sua mentalità è evoluto, ha capito molte cose. In un'occasione a Roma mi ha detto che aveva letto il mio libro su Job. Io stesso gli inviavo i miei libri. Ho sempre creduto che la distanza crei fantasmi. Mi disse che gli era piaciuto e che i teologi del sud avevano la poesia, che la teologia europea era più fredda.


– Il suo modo di procedere è stato sempre poco conflittuale, sempre molto dialogico e carente di dramma. Qualcuno crede che corrispondi alla sua personalità, ma credo che ci sia qualcosa di profondamente ecclesiastico.

– Esatto. Tutto perché il mondo che più ispira la mia vita non è quello intellettuale. Non è la difesa delle mie idee perché sono le mie idee. Mi interessa la vita della Chiesa, l'annuncio del Vangelo e la vita delle conferenze episcopali.


– La teologia è indifferente all'impronta del suo tempo. Stiamo chiaramente entrando in un altro periodo, nel quale non si sente la stessa urgenza e si aprono altre strade alla fede.

– Fino ai quaranta anni non parlai mai della Teologia della Liberazione e credo che fossi un cristiano vero. Così sarò cristiano anche dopo la Teologia della Liberazione.Quando mi dicono che la Teologia della Liberazione è già morta io dico: "Beh guarda, a me non hanno invitato al funerale e credo che ne avessi il diritto". Poi aggiungo: "Beh guarda, credo che sicuramente un giorno morirà". Intendo che morirà il fatto che non avrà più la stessa urgenza di prima. Questo mi sembra normale, è stato un contributo alla Chiesa in un certo momento.


– Credo che si guardi bene dal non trasformare la teologia in un mito, in una ideologia nella difensiva.

– Non bisogna fare della teologia una nuova religione. E' la tendenza della società civile. Qualcuno pensa che la Teologia della liberazione è una specie di cristianesimo diverso, il mio. E lo dicono anche come elogio, non per criticare. Non credono nel cristianesimo ma nella Teologia della Liberazione si. Mi dispiace, l'importante è il cristianesimo, non la Teologia della Liberazione. Questa si capisce solo alla luce del cristianesimo.

lunedì 8 settembre 2008

Guatemala: Stop a violenza, persecuzione, repressione ed impunità

Le Organizzazioni e le Reti Nazionali ed Internazionali ed i membri del Consiglio Emisferico del Foro Sociale delle Americhe, riunitesi in Guatemala, esprimono solidarietà ai compagni Juan Tiney del Coordinamento Nazionale Indigeno Contadino e Yuri Melini del CALAS, alle organizzazioni che appoggiano le lotte delle comunità e alle comunità in lotta. Esigiamo dalle istituzioni un'indagine sugli attentati dei quali sono stati vittime e sulla morte di altri compagni. Vogliamo la sicurezza che si puniscano coloro che si stanno servendo di questi mezzi violenti per evitare che continui il processo di opposizione alla consegna delle risorse naturali nelle mani delle compagnie nazionali e straniere che cercano solamente di arricchirsi con lo sfruttamento dei nostri tesori. Esigiamo la garanzia della sicurezza di tutti i compagni delle Organizzazioni Sociali e Professionali che stanno dimostrando il loro malumore nei confronti di questa politica. Esigiamo dal governo la revoca delle azioni che si stanno attuando a favore delle imprese nazionali e straniere che minacciano i territori e le risorse delle comunità indigene e del paese. Sollecitiamo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite a verificare la situazione e a prendere dei provvedimenti.
STOP A VIOLENZA, PERSECUZIONE, REPRESSIONE ED IMPUNITÀ SECTOR DE MUJERES, FLACSO, CNP TIERRA, AMARC, FGER, CNOC, WAQIB' KEJ, CONGCOOP, CONCAD, COLECTIVO UNIVERSITARIO REDES Y ORGANIZACIONES INTERNACIONALES COMITE HEMISFERICO DEL FORO SOCIAL AMERICAS

sabato 6 settembre 2008

Lev Tolstoj: maestro di nonviolenza cristiana


I principi fondamentali del pacifismo di Lev Tolstoj: nonviolenza, non resistenza al male, non-collaborazione, antimilitarismo, lavoro manuale per il pane, riscoperta del lavoro agricolo. Nell'autobiografia Gandhi scrivera': "La sua lettura mi entusiasmo'. Ne ebbi un'impressione indimenticabile. A quel tempo io credevo nella violenza. Quel libro mi curo' dallo scetticismo e fece di me un fermo credente nell'ahimsa"...continua

La crisi alimentare e il caro vita


Ormai non si arriva più a fine mese. Non si vive più. Anche nel ricco occidente la maggioranza della popolazione appare sempre più stremata nel tentativo di riuscire a sostenere una vita appena dignitosa. Sempre più frustrati dall'assenza di spazi sociali e comunitari condivisi. Sempre più precari nel lavoro come nelle vite di tutti i giorni, affannate da un'idea di tempo che non lascia spazio per nessuna aspirazione o sogno condiviso. Sempre più arrabbiati e apparentemente inermi davanti al fallimento di un modello di democrazia e di politica lontani anni luce dalle vite reali, dai problemi giornalieri, dalle insicurezze che producono paure, dalla solitudine sociale, dall'ansia rabbiosa che divora la convivenza quotidiana.

Nessuno è in grado di dare risposte efficaci alla crisi di sistema che in maniera strutturale coinvolge la nostra società nel suo complesso attirandola verso il basso. Non ultima la crisi alimentare mondiale che si traduce in un aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, pagato dalle tasche di cittadini "normali" che così normali non si sentono più. Tutti anche in Italia si sono accorti degli aumenti spropositi dei beni di prima necessità. Aumenta tutto, dalla luce, al gas, al pane, alla pasta, all'acqua, agli affitti, ai biglietti. Un caro vita che appare come una spirale inarrestabile e fuori controllo. Come se nulla si potesse fare davanti alla crisi, politici e maggioranza dei media stendono pianti e accampano scuse sulla crisi vissuta da precari, famiglie, anziani, giovani e da quella classe "media" ormai risucchiata tra quelli che non riescono più a risparmiare.

La giustificazione che la "casta" dà della crisi suona più o meno così: "è colpa della crisi internazionale; ci attendono periodi difficili (ma quali erano quelli buoni?); c'è la crisi dell'economia statunitense; c'è la crescita di nuovi competitors sul mercato globale; il costo del lavoro è molto più basso in altri paesi; il terrorismo internazionale è un ostacolo enorme; la guerra in Irak e la minaccia iraniana; il governo non è abbastanza stabile; " ed altri bla bla bla di questo tipo. Invece le risposte che la “casta” offre per affrontare la crisi sono: "dobbiamo liberalizzare e privatizzare di più; dobbiamo essere più flessibili, diminuire le "rigidità" (saremmo noi...) del lavoro; sostenere le esportazioni; sostenere le imprese; maggiore sicurezza per le strade" e così via.

Ma la domanda che ci poniamo e che vorremmo porre è, ma chi sono i responsabili di questa situazione? Chi l'ha provocata? E soprattutto, c'è qualcuno che in questa lunga ed appena iniziata crisi economica si è arricchito? E chi e come è riuscito a farlo? Non sono dettagli di poco conto per comprendere le cause ed i responsabili che hanno prodotto questa famosa "crisi" che per molti si traduce nel fatto di entrare in un supermercato senza riuscire più a fare la spesa, così come a pagare l'affitto di casa o la rata del mutuo (per chi ha avuto la possibilità di farlo).

Del resto se un poveraccio ruba qualcosa da mangiare oppure occupa una casa perché non può pagare un affitto esagerato, viene denunciato o arrestato. Quando qualcuno precipita nella fame interi popoli, riduce alla miseria le vite di centinaia di milioni di cittadini, distrugge i nostri risparmi continuando a fare profitti a palate, perché non dovrebbe essere processato e incarcerato? Non è un crimine contro l'umanità affamare le persone, violare i diritti umani, provocare immani disastri ambientali, costringere a gigantesche migrazioni interi popoli precipitati nella miseria? Ed allora vogliamo giustizia. E vogliamo anche sapere la verità, non ci sembra di chiedere poi tanto.

L'attuale crisi internazionale, che si traduce in crisi alimentare, climatica e sociale, non è certo il risultato di un disastro naturale improvviso o di un incantesimo strano, ma il prodotto di decine di anni di liberalizzazioni commerciali, d'integrazione verticale della produzione, della lavorazione e della distribuzione fatta dalle grandi multinazionali. Le scelte politiche promosse negli ultimi trenta anni dalla Banca Mondiale, dal Fondo Monetario Internazionale, dall'Organizzazione Mondiale del Commercio insieme a Stati Uniti e Unione Europea sono alla base della crisi di sistema. Ma non sono stati questi soggetti a gestire la "governance" mondiale in questi decenni, imponendo un modello economico e culturale basato sul liberismo, la competizione ed il mercato come unico luogo della democrazia? Ed allora anche la crisi alimentare e dei prezzi dei beni di prima necessità è frutto di queste scelte. Politiche che hanno significato una liberalizzazione su scala globale, apertura senza limiti dei mercati, privatizzazione delle terre destinate all'agricoltura locale e loro trasformazione in monocoltivazioni da esportazione, hanno condotto all'attuale crisi alimentare ed al caro vita.

Ma non avevano annunciato da trenta anni a questa parte ad ogni loro riunione che avrebbero eliminato il "problema" della fame nel mondo? Prima l'asticella era fissata agli anni '80, poi '90, poi gli obiettivi del millennio e poi il 2005 ed ora il 2015. Si sono create istituzioni come la FAO, banche, organizzazioni del commercio, club esclusivi come il G8, con l'obiettivo di rispondere ai problemi globali ed ora scopriamo che non solo i problemi ci sono e sono aumentati enormemente, ma che proprio le istituzioni preposte alla loro risoluzione sono responsabili dei nostri problemi. Ed ogni anno raccontano una scusa tutta nuova. Ad ogni scintillante e sempre più assediato meeting spostano l'asticella dei diritti ad un momento più lontano. Gli ultimi incontri della FAO e del G8 ne sono la riprova. Lo scorso giugno l'istituzione che dovrebbe risolvere il problema della fame del mondo ha mandato in scena nella sua conferenza internazionale a Roma l'ennesimo fallimento, l'ennesima ipocrisia raccontata agli oltre 850 milioni di persone affamate ed ha confermato il proprio impegno per mantenere una politica economica commerciale di dipendenza del sud dal nord e di appoggio alle multinazionali agroalimentari. Maggiore apertura dei mercati, maggiore flessibilità, aumento della produzione. Ancora una volta le stesse ricette responsabili della malattia. Ma come può essere che nessun politico voglia ricordare a Ban Ki- moon, segretario generale delle Nazioni Unite, che non ha senso aumentare la produzione per combattere la fame, visto che il problema non è l'assenza di cibo, anzi. Di cibo ce n'è anche troppo. Oggi si produce tre volte più cibo che negli anni sessanta. Mentre la popolazione è appena duplicata, il numero di quelli che muore di fame è raddoppiato. Ma come è possibile? Fesserie analoghe le afferma il numero due della FAO, Josè Maria Sumpsi, quando dice che si tratta di un problema creato dall'aumento dei consumi dei paesi emergenti come India, Cina o Brasile. Davanti a tanta ipocrisia condita da colossali menzogne utilizzate per dare risposte ad un problema così serio, c'è da chiedersi se non siano proprio la FAO, la BM, il WTO, il FMI o la burocrazia delle Nazioni Unite il vero ostacolo alla risoluzione dei nostri problemi.

Ma a chi fa gioco la democrazia degli sherpa? Chi si è arricchito? Oggi il monopolio di certe multinazionali ad ogni livello della catena produttiva alimentare, fino al commercio e distribuzione, ha prodotto utili da capogiro. Nonostante la crisi che colpisce noi poveri mortali, la Monsanto, la Nestlè, la DuPont, la Unilever, Wal Mart, Carrefour, denunciano guadagni di centinaia di miliardi di dollari. Gli utili di una sola di queste grandi imprese basterebbero a risolvere in un anno il problema della fame nel mondo. Ma non si può fare, perché questo sistema economico si fonda sulla necessità che molti rimangano esclusi, che molti lavorino come schiavi, che molti rinuncino ai loro diritti. Un'economia di tipo feudale per chi sta sotto, soft e tecnologica per chi sta sopra. I governi spinti dalle regole di questa economia feudale hanno smantellato le politiche agrarie che appoggiavano la produzione alimentare ed adesso appoggiano le grandi imprese. Lo sviluppo dell'agricoltura industriale ha distrutto l'ambiente e ipersfruttato i suoli, contribuendo all'aumento del riscaldamento globale (altra gigantesca minaccia che rischia di abbattersi principalmente sulla testa di quelli che stanno sotto). L'agricoltura industriale causa infatti tra il 17.4 ed il 32% dei gas ad effetto serra. E mentre le famiglie di agricoltori vengono cacciate dalle loro terre e finiscono nella povertà, la FAO con una faccia di bronzo senza pari annuncia in un documento che i poveri aumenteranno di altre 100 milioni di unità nei prossimi anni. Quasi un miliardo di esseri umani nel 2015 morirà di fame. Ma non doveva sparire la fame dalla faccia del pianeta? Una vergogna inaccettabile resa ancora più amara dal fatto che trattasi di una precisa condanna a morte eseguita preventivamente dagli organismi internazionali preposti alla nostra sicurezza e pagati (troppo) per risolvere i nostri problemi. Questa democrazia non solo è malata, ma è morta se ha bisogno di esistere sull'esclusione sistematica di miliardi di essere umani dai suoi vantaggi e dalla sua comunità privilegiata.

Ma c'è di peggio. La rivista inglese "The Guardian" ha denunciato all'opinione pubblica un documento tenuto segreto della BM che afferma come in realtà la responsabilità dell'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità sia il frutto della politica statunitense ed europea di sostegno agli agrocarburanti. E già, perchè pare che ultima delle menzogne in ordine di tempo sia proprio la questione degli agrocombustibili per risolvere la crisi legata ai cambiamenti climatici. Proprio durante il vertice del G8 in Giappone per discutere appunto di crisi alimentare e cambiamenti climatici, sono state confermate le misure che garantiranno il modello di produzione agricola intensivo, monoculturale e su larga scala per le materie prima destinate agli agrocarburanti. Tutto ciò causerà enormi impatti sociali ed ambientali nei paesi del sud del mondo che ne saranno i principali fornitori. Ulteriore conseguenza l'aumento dei prezzi e dell'instabilità economico e sociale per tutti noi anche da questo lato del mondo. Con una catastrofe climatica alle porte ed il prezzo del petrolio triplicato negli ultimi anni, invece di pensare a sviluppare e rendere efficace ed efficiente un sistema energetico alternativo basato sulle rinnovabili, la "casta" ha deciso di investire negli agrocombustibili per sostituire il petrolio. Se per farlo bisognerà cacciare dalle loro terre milioni e milioni di contadini ed indigeni, provocare guerre, danneggiare l'ambiente, far aumentare i prezzi al consumo e rendere le nostre vite sempre più precarie, poco importa. Solo così potranno continuare a mantenere lo stile di vita occidentale, ormai ammirato dagli stessi occidentali solamente in televisione o nelle pubblicità dei giornali.

Si chiama "de-ruralizzazione " il processo che spopola dalla terre milioni di contadini, sgretolandone l’autosufficienza e la sicurezza alimentare. Un trauma che per noi si traduce in caro vita e precarietà sociale, mentre per i contadini ed i coltivatori in dramma. Solo in uno stato dell’India chiamato Maharashtra i contadini che si sono suicidati a causa di queste misure adottate sono stati 3926 nel 2005! In tutta l’India si parla addirittura di oltre 150.000 contadini che si sono tolti la vita negli ultimi anni a causa dello sfollamento delle terre che consente lo sfruttamento intensivo del suolo da parte delle multinazionali, per lo più europee e statunitensi. E’ una cifra da capogiro, alla quale si stenta a credere. Purtroppo però questa è la cruda realtà di un modello economico e di scelte di politica agricola e alimentare che producono genocidi, oltre che crisi economica. Ma la politica dov'è? Chi difende i nostri interessi? Chi denuncia queste torbide istituzioni che insieme alle grandi multinazionali ed a politici ossequiosi in doppio petto sono in realtà i veri “fannulloni” e “minacce” di questa società? Purtroppo la politica è assente oppure impegnata in ritualità e pratiche antiche quanto sterili, appartenenti al secolo passato e che costituiscono una zavorra enorme per affrontare le sfide di questo secolo. L’auto-organizzazione ed il protagonismo sociale sono in questo momento le uniche strade percorribili per resistere e per provare ad immaginare un’idea altra di relazioni umane, prima che economiche. Per esempio la rete internazionale degli agricoltori, come quella chiamata Via Campesina, non solo si oppone all’organizzazione mondiale del commercio senza delegare il proprio dissenso ai governi, ma riesce anche a promuovere una nuova strategia di alimentazione. Dare innanzitutto il diritto ad ogni paese di stabilire i termini della propria produzione e consumo di prodotti alimentari, consolidare la forza dei piccoli proprietari terrieri proteggendoli dai danni di un sistema di importazione a basso costo, opporsi agli organismi geneticamente modificati, abolire le sovvenzioni dirette e indirette all’esportazione, mettere fine al regime imposto dall’OMC che permette di brevettare le semenze. Queste le proposte spinte a suon di marce, scioperi, mobilitazioni, al punto da far “cambiare” la posizione di diversi governi del sud del mondo, non più succubi delle decisioni della cupola mafiosa che gestisce la “governance” globale.

Quanto accade nei sud del mondo dovrebbe aiutare a farci riflettere su come ci si possa ancora organizzare e provare a cambiare anche qui da noi, finto e sbiadito occidente ormai immerso in problemi di sopravvivenza economica e individualismo sociale. Per esempio si può immaginare come si possa costruire un percorso fatto di sperimentazioni anche sul fronte della produzione e consumo di alimenti di prima necessità. Alla stessa maniera potremmo lavorare per riuscire a creare saldature tra coloro che sono oggi precari e impoveriti da questo sistema e, pur essendo all’oscuro delle cause della crisi, non accettano il tunnel dei sacrifici e del “realismo” che la casta vorrebbe imporci. Legare queste necessità e queste lotte dandogli anima, per restituirle a quell’orizzonte sbiadito chiamato politica che possiamo riaccendere solo con la passione delle nostre idee e lo slancio delle nostre azioni.

martedì 26 agosto 2008

Sfuggire alla trappola della povertà


Cos’hanno in comune una vedova del Bangladesh con un figlio sordo, un minatore dodicenne del Kirghizistan, una coppia di contadini ugandesi con dodici bambini e una collaboratrice domestica sudafricana che perde la casa quando muore il marito e il lavoro quando si rompe una gamba? Sono intrappolati, bambini compresi, nella miseria cronica, anche quando i loro paesi mostrano segni di crescita economica...continua

Perù: vince il movimento indigeno amazzonico


Una grande vittoria per il movimento indigeno peruviano. Il congresso peruviano ha ratificato la decisione della commissione del congresso sull' amazzonia che ha stabilito l'abrogazione dei due decreti legislativi voluti dal governo Garcìa e da mesi al centro delle proteste delle comunità e dei movimenti.

Si tratta di un grande successo per le comunità native del Perù che hanno dimostrato attraverso la loro giusta lotta in difesa del proprio territorio e del diritto alla vita, di saper costruire partecipazione politica attraverso processi di resistenza democratici e pacifici. Non occorre dimenticare che, nonostante la vittoria sui due decreti incriminati, ne restano ancora molti in vigore che rappresentano una minaccia non solo al diritto di autodeterminazione dei popoli ma soprattutto alla sovranità nazionale del Perù.

I due decreti oggetto della misura abrogativa sono il 1015 ed il 1073, imposti senza dialogo ne accordo con i popoli indigeni, contrariamente a quanto sancisce la Convenzione 169 dell'OIT, sottoscritta dallo stato peruviano.

Questi decreti legislativi facilitavano la vendita delle terre e la consegna delle risorse naturali amazzoniche alle grandi multinazionali, in accordo al Trattato di lIbero Commercio con gli Stati Uniti, firmato dall'ex presidente Alejandro Toledo. Due anni e mezzo fa l'allora canditato alle presidenziali Garcia, aveva promesso di ritirare la firma peruviana da quasto accordo. Una volta eletto però questo signore è diventato il migliore alleato degli Stati Uniti insieme a Uribe in Colombia e alla Bachelet in Cile. Preoccupato per i mancati investimenti delle multinazionali come unico modo per risolvere il problema della povertà, il Sr. García ha tentato di utilizzare le terre degli indiani amazzonici usino asservendole al capitalismo.

In accordo alle leggi che di peruviano hanno solo il nome, chi possiede la terra in Perù sono solo i proprietari della materia fisica chiamata terra e non dell'aria, dei boschi, del sottosuolo dove c'è il gas, il petrolio, i minerali, ne delle acque dei suoi fiumi nella quale si trova l'oro. Con la loro saggezza millenaria i popoli indigeni ridono della stupidità peruviana occidentale. Per loro infatti la terra, il sottosuolo e l'aria fa parte di un'unità, come una è la vita degli esseri umani, animali e piante grazie alla madre terra, ai fiumi e ai mari. Separare gli esseri umani dai loro boschi e dai loro fiumi è un atto d'ignoranza punibile.

In Texas i proprietari delle terre dove si trova il petrolio divengono milonari. In Perù invece diventano poveri, come è succusso a tutti i proprietari dei terreni dove ci sono minerali, petrolio e gas.

Dal 1974, i popoli indigeni hanno cominciato a recuperare parte del territorio che gli era stato espropriato dagli spagnoli e dai loro eredi. Le superfici recuperate corrono il pericolo di passare in altre mani, per la felicità del capitalismo e dei suoi sostenitori. Condividere il bosco con i fratelli scimmie, tartarughe o uccelli, è concepibile solo se si ha la luce della spiritualità indigena, nella quale la teorica superiorità dell'uomo e della ragione sulla natura, sono inesistenti ed inimaginabili.

I popoli indigeni hanno chiesto al nuovo governo il dialogo, con forza e fermezza, ma senza violenza.
Quando il presidente Garcia ha redatto i decreti legislativi non ha dato modo alle popolazioni interessate di capire ciò che stava succedendo. I dirigenti indigeni hanno sospeso il dialogo chiedendo una commissione che abbia capacità decisionale. Il governo ha risposto sospendendo le garanzie costituzionali, dando così libero sfogo alla violenza. Ciononostante, la determinazione delle comunità a continuare la loro lotta è riuscita ad ottenere dalla commissione il riconosciemnto della violazione palese che il governo stava commettendo. Una lezione in più che ci giunge dall'America latina. L'unico angolo del mondo da cui continuano ad arrivare concreti segnali di speranza per un altro mondo possibile.

L'integrazione Latinoamericana e il diritto agli alimenti


In tutto il mondo circa 800 milioni di persone soffrono di fame cronica e ogni giorno si registrano 40.000 decessi correlati alla fame. Ciò nonostante, da anni si investe sui biocarburanti, che com'è risaputo, utilizzano granaglie e altre colture destinate all'alimentazione per produrre carburati vegetali. Sull'argomento pare che i ricercatori, evidenziando l’aumento crescente della conversione di coltivazioni tradizionali in coltivazioni energetiche abbiano affermato che «Le scienze possono e devono contribuire nel fornire nuove soluzioni per risolvere la crisi energetica senza sottrarre il cibo ai poveri».

Da anni i ricchi paesi occidentali provano a destinare lo 0.7% del loro miliardario Prodotto interno lordo (PIL) in aiuti allo sviluppo. Nonostante la buona volontà proprio non riescono neanche ad avvicinare tale obbiettivo. Adesso il Sud del mondo, che finalmente nazionalizza le proprie ricchezze e le usa per lo sviluppo, con l’ALBA, che accoglie come nuovo membro l’Honduras, può aiutarsi da solo. Ecco come il petrolio venezuelano si trasforma in pane.

I peggiori del mondo, perfino peggio degli Stati Uniti, sono gli italiani: nonostante spergiurino da vent’anni di volere arrivare allo 0,7% (cifra raggiunta solo dagli scandinavi e gli olandesi) destinano in realtà appena lo 0,11% del PIL, il 90% del quale finisce comunque a imprese italiane impegnate all’estero.

Rispetto alla crisi alimentare attuale, alla crescita esponenziale di prezzi di alimenti di base, per la quale l’Occidente ha importanti responsabilità, dal Sud del mondo arriva una risposta concreta. Petrocaribe, un’organizzazione alla quale partecipano 18 paesi, voluta dal governo bolivariano venezuelano e incentrata sulla petrolifera nazionalizzata PDVSA, ha lanciato un’iniziativa per la sicurezza alimentare dei paesi membri. Il governo presieduto da Hugo Chávez da oggi destinerà 50 centesimi di dollaro per ogni barile di petrolio venduto (a un prezzo superiore ai cento dollari).

Vuol dire che solo da qui a fine 2008 e solo attraverso tale voce, il governo venezuelano destinerà 450 milioni di dollari alla sicurezza alimentare della regione.

Intanto nell’ALBA, l’Altenativa Bolivariana per le Americhe, della quale fanno parte Venezuela, Cuba, Nicaragua e Bolivia entra a far parte come membro pieno l’Honduras. Per il presidente Manuel Zelaya, un moderato di centro-sinistra, entrare nell’ALBA oggi vuol dire cercare alternative solidali al neoliberismo visto che le soluzioni tradizionali hanno fallito, ed è “è la miglior maniera di trovare soluzioni ai problemi storici del paese, in cerca di un modello di sviluppo che favorisca i poveri”.

Italiani grandi consumatori d'acqua


Si è conclusa recentementela settimana mondiale dell’acqua, indetta dall’Istituto Internazionale per le acque di Stoccolma. Fra i tanti argomenti trattati è emerso che l’Italia è fra i più grandi consumatori d’acqua.

Nel nostro paese la media è di 215 litri al giorno, contro i 2,5 litri che rappresentano la stima del fabbisogno per le esigenze di vita. In sostanza abbiamo un consumo 86 volte superiore a quello di cui avremmo bisogno. L’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito la soglia minima del fabbisogno idrico per persona in 1.700 metri cubi di acqua all’anno (per usi idropotabili, irrigui, industriali, energetici).

In parte, spiega l’Aduc, siamo responsabili dei consumi mondiali, visto che, come ha sottolineato la Fao, su 5 mila chilometri cubi d’acqua consumati nel mondo, circa 3.500 vanno all’agricoltura, 1.000 circa all’industria e circa 200 agli usi civili.

L'alternativa arriva dal rubinetto


Bere acqua in bottiglia è un'abitudine che costa cara all'ambiente e al portafoglio. L'alternativa esiste e viene dagli acquedotti con un vantaggi non indifferente per il portafoglio. Ipotizzando un costo medio di 30 centesimi al litro per quella imbottigliata, una famiglia di tre persone spende circa 175 euro l'anno per 194 litri a testa. Mentre la stessa quantità di acqua del rubinetto è praticamente gratis (con le tariffe più care d'Italia non si va oltre 1,3 euro).
Per quanto riguarda la salute non c'è problema. Come previsto dal decreto legislativo 31 del 2 febbraio 2001, i controlli dei gestori e delle aziende sanitarie locali sono molto frequenti (in grandi città come Milano e Roma si fanno ormai più analisi al giorno).
Per avere notizie più dettagliate sulla propria acqua si può leggere la bolletta, consultare i siti internet dei gestori o i venditori e le Asl di riferimento.
Se il problema è il sapore, invece, può bastare qualche accorgimento. Per togliere il cloro, ad esempio, visto che è una sostanza volatile è sufficiente lasciare l'acqua all'aria aperta per qualche minuto.
In commercio poi ci sono caraffe filtranti, impianti a osmosi inversa e addolcitori che eliminano cattivi odori e riducono gli inquinanti. I prezzi vanno da qualche decina di euro a oltre 2mila.
Infine, chi vuole l'acqua del rubinetto anche al ristorante, sul sito internet www.imbrocchiamola.org, può trovare l'elenco di esercizi pubblici che la servono a tavola.

Meno spesa per ogni goccia


Consumare meno acqua permette di alleggerire la bolletta ed evitare sprechi. Basta fare attenzione ai piccoli gesti quotidiani, come consigliano tre associazioni dei consumatori, Adiconsum, Altroconsumo e Federconsumatori. A partire dall'uso del bagno: utilizzare la doccia permette di consumare in media un terzo dell'acqua necessaria per lavarsi in una vasca, che può contenere circa 150 litri.
Un'altra indicazione da tenere presente è che bisogna stare molto attenti a non lasciare aperto il rubinetto inutilmente visto che dal getto della doccia, ad esempio, possono uscire anche 20 litri di acqua ogni minuto. Per quanto riguarda il water poi è bene sapere che ogni volta che si fa scendere l'acqua si consumano da 6 a 10 litri. Per evitare sprechi da questo punto di vista è consigliabile installare impianti a pulsante o a manovella che possono essere avviati e interrotti a seconda della necessità.
Per tutti i rubinetti di casa, invece, applicare un frangigetto può essere una buona idea per risparmiare. È un piccolo apparecchio, molto semplice da inserire all'interno dei tubi, che immette aria nel flusso. Con questo sistema esce un getto più leggero ed efficace.
I risparmi sono stati calcolati in migliaia di litri ogni anno (un metro cubo d'acqua, pari a mille litri, può costare da pochi centesimi a un paio di euro, a seconda del gestore preso in considerazione). Un frangigetto può essere comprato per pochi euro in un qualunque ferramenta o in un negozio di casalinghi.
Secondo una stima dell'Eni, installando i riduttori di flusso sui rubinetti di lavandini e doccia si ridurrà del 30-50% il consumo di acqua e dell'energia necessaria per riscaldarla con un risparmio di oltre 50 euro all'anno.
Passando agli elettrodomestici, e in particolare a lavatrici e lavastoviglie, utilizzandoli a pieno carico e con il ciclo economico si possono ottenere risparmi elevati. Chi non possiede una lavastoviglie e deve lavare i piatti a mano, può cercare di raccogliere l'acqua nel lavello invece di tenere il rubinetto sempre aperto.
Per evitare sprechi, inoltre, è fondamentale non trascurare mai la manutenzione di tutti gli strumenti attraverso i quali passa acqua. Ogni giorno, ad esempio, si possono sprecare fino a 100 litri per uno scarico o un rubinetto difettosi (se la perdita corrisponde a circa 90 gocce ogni minuto, il totale annuo raggiungerà addirittura 4mila litri).
Anche in giardino si può risparmiare: evitando, per esempio, di innaffiare le piante durante il giorno, soprattutto nella stagione estiva, visto che la terra calda favorisce l'evaporazione dell'acqua. Meglio farlo quando il sole è tramontato. Potrebbe valere la pena, soprattutto per chi ha un giardino molto vasto, di prendere in considerazione i sistemi automatici a micropioggia che possono essere regolati in tempo e quantità. Un altro sistema utile a raggiungere lo stesso scopo potrebbero essere gli impianti goccia a goccia, costruiti in modo da rilasciare lentamente l'acqua.
Un ulteriore piccolo stratagemma è riciclare l'acqua usata per lavare la verdura – o della doccia in attesa che diventi calda – per innaffiare.
Infine, attenzione a quando si lava la propria auto. Sarebbe meglio evitare di usare il tubo attaccato al rubinetto. Usare un secchio riempito, infatti, consente di risparmiare all'incirca 130 litri di acqua a lavaggio.

martedì 19 agosto 2008

Le donne fanno di più, col minimo di aiuti


Il dibattito internazionale sull’efficacia degli aiuti - modellati sui bisogni dei paesi in via di sviluppo piuttosto che sulle priorità dei donatori - riprenderà quando i ministri di oltre cento paesi e i membri delle agenzie per lo sviluppo, delle organizzazioni dei donatori e della società civile si riuniranno per il terzo Forum di alto livello sull’efficacia degli aiuti ad Accra, dal 2 a 4 settembre...continua

mercoledì 13 agosto 2008

Usa: Gli ospedali rimpatriano i 'sin papeles'


Gli ospedali statunitensi stanno rimpatriando autonomamente gli immigranti illegali senza assicurazione che non possono pagare il trattamento medico di cui hanno bisogno. La minima copertura del sistema di salute finanziata dallo Stato, ha fatto si che i centri che devono pagare con i loro propri fondi l'assistenza a questi pazienti poveri, abbiano iniziato a finanziare voli per riportare ai loro paesi di origine gli immigranti, secondo un reportage pubblicato dal New York Times.Il sistema sanitario si fa solo carico di una parte della fattura. Il caso del guatemalteco Luis Alberto Jiménez è il primo che si è concluso, grazie ad un vizio d'errore, a favore del paziente. Il tribunale d'appello ha dichiarato che gli ospedali non hanno nessuna facoltà nella politica migratoria. Nel 2000, Jiménez, di 35 anni, che lavorava illegalmente nel paese, dopo aver avuto un grave incidente di macchina provocato da un nordamericano ubriaco, è stato trasportato in un ospedale in Florida. Gli ospedali non possono negare assistenza d'urgenza agli immigrati illegali. Secondo la normativa federale sono obbligati a curarli. E neanche possono lasciarli per strada quando ancora hanno bisogno d'attenzione, senza assicurarsi che li accolgano in un centro post-ospedaliero adeguato. Il problema è chi paga questo sistema. Il sistema sanitario statale si fa carico solo di una parte del costo, perché la maggior parte degli stati non finanziano i trattamenti a lungo corso. Così sono gli ospedali che devono farsi carico delle spese che non gli verranno rimborsate. Luis Jiménez ha passato quasi un anno in coma nel Martin Memorial in Florida. Al risveglio il danno celebrale era molto grave. L'ospedale a quel punto ha trovato un centro post-ospedaliero che potesse occuparsi di lui. Dopo pochi mesi è tornato con una grave infezione che doveva essere trattata immediatamente. Nessun centro lo ha voluto accettare. L'ospedale a quel punto ha deciso di rimpatriare il paziente in Guatemala. Dopo l'incidente il tutore legale di Jimenez, ha presentato un'istanza per impedirne il rimpatrio. Un giudice della Florida, nel giugno 2003, ha commentato che stava "navigando per mari che sono fuori dalle mappe", dando la ragione all'ospedale. Ha poi ordinato a Jiménez di smettere d'impedire l'attuazione del progetto di rimpatrio. Il suo avvocato, Michael Banks, ha annunciato il ricorso in appello, ma quattro ore dopo una macchina stava già portando il paziente all'aeroporto.
Quando la corte di appello della Florida ha emesso la sentenza nel 2004, Jimenez ere già in Guatemala. In quell'occasione il tribunale ha dato ragione al paziente, stabilendo che l'ospedale non aveva capacità giuridica per poter deportare qualcuno, cosa che può fare solo il Governo Federale, e che il centro non aveva fornito prove sufficienti a dire che Jimenez aveva ricevuto cure idonee. Non era la prima volta che un ospedale prendeva una decisione di questo tipo. A quanto sembra è una pratica in uso già da vari anni. Quando si tratta di trattamenti medici lunghi che nessuno paga, i centri di salute riportano gli emigrati nei loro paesi di origine, pagando il viaggio di tasca propria. Anche senza il consenso dei famigliari. I centri medici dicono che non procedono al rimpatrio fino a che i pazienti si siano stabilizzati e fino a quando non si sia trovata una giusta sistemazione nei loro paesi. Di fatto però nessuno supervisiona la condotta degli ospedali. In molti casi, per la mancanza di risorse nel paese d'origine, il trattamento è inesistente. Non ci sono statistiche, ma il The New York Times cita il caso di un ospedale di Phoenix che in un solo anno ha rimpatriato 96 pazienti. Jiménez è ora nel suo piccolo paese in Guatemala, assistito solo da sua madre di 72 anni. Non è probabile che torni negli Stati Uniti, ma la decisione della corte di appello della Florida ha segnato un precedente importante. Rende più difficile per gli ospedali continuare con la loro politica di rimpatrio illegale.