martedì 14 ottobre 2008

I 40 della Teologia della Liberazione


Intervista a Padre Gustavo Gutiérrez, di Angel Dario Carrero


- Quando ha iniziato ad assumere come punto di partenza della teologia, la realtà della violenza e della povertà in America Latina e nei Caraibi?

– Ho cominciato a lavorare nel marzo del '64. Ci fu una riunione convocata da Iván Illich. Lo ho conosciuto quando stava ancora a Porto Rico nel '60. E' stato Ivan a organizzò una riunione molto informale a Petrópolis per farci vedere il lavoro fatto dalla teologia in America Latina.


– E quale è stato il suo contributo?

– Ho parlato di teologia come una riflessione sulla fede e la vita cristiana. Quello che poi ho formulato più tardi come riflessione critica sulla prassi alla luce della fede.


– La prima cosa che sorge è la decisione di un metodo che prende le mosse dalla vita reale per illuminarla alla luce della Parola ed aprire cammini concreti di liberazione?

– E' proprio così. Io ho trascorso praticamente tutti i miei studi di teologia preoccupatissimo dalla questione del metodo. Da lì la frase: "il nostro metodo è la nostra spiritualità".


– Il tema della vicinanza ai poveri non è una novità, ma l'indagine sulle cause della povertà e la lotta contro la povertà come parte dell'identità cristiana si che lo sono. Quando è iniziata questa transizione?

– Mi hanno invitato a parlare sulla povertà a Montreal nel 1967. Volevano prendere le distanze da Voillaume, l'autore di "Nel cuore delle masse", perché evitava qualsiasi prospettiva sociale in torno alla povertà. Ma la verità è che non si può evitare la questione sociale. Raccontai di tre nozioni bibliche sulla povertà: per primo la povertà reale o materiale, vista sempre come un male. La seconda è la povertà spirituale, come sinonimo d'infanzia spirituale. Lo povertà spirituale è mettere la mia vita nelle mani di Dio. Lo sperpero dei beni è la conseguenza della povertà spirituale. E la terza dimensione è la solidarietà con i poveri, contro la povertà. Voillaume diceva che bisognava essere poveri. Si, molto bene, ma per quale motivo? Che senso ha? Non è solo per santificarsi. Bisognava pensare a cosa poteva significare per l'altro.


– Qualche altro elemento importante di questa prima fase?

– Una preoccupazione: come annunciare il Vangelo oggi? La teologia si fa per annunciare il Vangelo, al servizio della Chiesa, della comunità. Ci sono molte facoltà che pensano alla teologia come una metafisica religiosa, non come annuncio storico di liberazione.


– Quando comincia a chiamarsi Teologia della Liberazione questo nuovo modo di pensare la fede dalla prospettiva del povero e dell'escluso?

– Il 22 luglio del 1968 a Chimbote, in Perù. Mi chiesero di parlare di "teologia dello sviluppo" e mi negai. Gli dissi che avrei parlato di teologia della liberazione, che era più pertinente a questo contesto. Un'altra cosa che era di moda era la "teologia della rivoluzione", dalla quale presi le distanze. Il pericolo era quello di cristianizzare un fatto politico.


– A differenza di altri, lei non è mai stato d'accordo con partiti o gruppi come la Democrazia Cristiana o con i Cristiani per il Socialismo, anche se accentuava la dimensione politica della fede. Perché?

– Non mi è mai piaciuto che si usasse cristiano come aggettivo. Cristiano è un sostantivo. Ho sempre detto: "Sono cristiano per Cristo, non per il socialismo". Che come cristiano qualcuno scelga di essere socialista è un'altra cosa, ma non si può dedurre il socialismo dal cammino della Bibbia. Dalla Bibbia si può dedurre la giustizia, il sostegno ai poveri. La gente quando non lo capisce dice: "Senti, ma tu neghi la politica, sei contrario". Io rispondo che credo anche nell'autonomia del sociale e del politico.


– Quando è iniziata l'idea di formare il libro che si trasformerà nel testo fondante della teologia latino americana contemporanea: teologia della liberazione. Prospettive?

– In realtà non pensai a scrivere un libro vero e proprio. Uno lavora ai temi che gli interessano e poco a poco ne esce. All'inizio del 1969, poco dopo Medellin, una commissione ecumenica sulle tematiche dello sviluppo mi invitò a Ginevra. Quindi ripresi il documento che avevo scritto a Chimbote e lo ampliai.


– C'è stata qualche offerta concreta da parte di qualche casa editrice?

– No, ma in quel momento passò Miguel d'Escoto, di Maryknoll, che aveva appena fondato Orbis Books. Vedendo il libro mi disse: "Lo pubblico". E' stato il primo libro pubblicato da questa casa editrice. Lo ha fatto tradurre e lo ha pubblicato nel 1973. E' stato il libro più venduto di questa casa editrice. Poi è passata la casa editrice di Sígueme, della Spagna, ed è successo lo stesso. Un altro che si interessò fu Gibellini. L'edizione italiana è precedente a quella spagnola. E' già tradotta in dieci o dodici lingue, tra le quali c'è il vietnamita ed il giapponese.


– Quali sono le critiche principali che ha ricevuto il libro?

– Io direi che più che al libro, le critiche erano già nei confronti della Teologia della Liberazione. Già tanta gente scriveva. Si criticava la visione marxista dell'analisi della realtà, ma io non mi sono sentito chiamato in causa. Adesso l'opposizione più forte che abbiamo avuto non è stata dentro la Chiesa ma in qualche componente della società civile, nei poteri di fatto, economici, militari, politici.


– La discussione aperta è segno di una teologia che dice qualcosa all'uomo e alla donna di oggi, che genera dialogo critico non solo all'interno della chiesa ma anche nella società.

– Buona parte delle reazioni sono nate dall'accoglienza che ho avuto. Se fossi rimasto in un ambiente di intellettuali non avrei avuto questo impatto. Ho avuto un'accoglienza dalla base, anche con espressioni che non mi hanno mai convinto, ma che dimostrano la buona volontà, che dicono: "Io sono della Teologia della Liberazione". Ma la Teologia della Liberazione non era ne è un club al quale uno s'iscrive, ne un partito. C'era chi si decantava un membro e dopo dicevano quello che volevano e non sempre corrispondeva a quello che si pensava. Sono cose inevitabili.


– C'era anche la necessità di trovare dei difetti ad una teologia che proveniva dal sud.

– Un giornalista statunitense mi ha chiesto: "Che cosa pensa la Teologia? Se uno si lascia trasportare solo da quello che scrive la stampa sembra che lei sia stato condannato dalla Chiesa. E non è vero. E' curioso. Nel mio caso non c'è stata mai condanna, e neanche un processo. Quello che c'è stato è una richiesta di dialogo, domande a cui sono stato sempre disposto a rispondere.


– Le sembra valido questo tipo di dialogo?

– Ho sempre creduto che la teologia si fa all'interno della Chiesa. Nella Chiesa ci sono diversi carismi. A chi scrive di teologia gli si può chiedere che dia ragione della sua fede, così come diamo ragione della nostra speranza. A questo livello di domande non bisogna offendersi.


– Quanto è durato il dialogo?

– E' iniziato nel 1983 e si è concluso in vari modo, ma ufficialmente cinque anni fa. Durante molto tempo tutto è rimasto in silenzio. Non ci fu nulla con me.


– Che dice il testo ufficiale?

– L'espressione è che tutto si concluse in modo soddisfacente.


– Ci sono stati vari incontri faccia faccia con il cardinale Joseph Ratzinger?

– Si, alla maggior parte di loro non sono stato convocato ma io stessi presi l'iniziativa di andare. Ratzinger è un uomo intelligente, educato e dentro della sua mentalità è evoluto, ha capito molte cose. In un'occasione a Roma mi ha detto che aveva letto il mio libro su Job. Io stesso gli inviavo i miei libri. Ho sempre creduto che la distanza crei fantasmi. Mi disse che gli era piaciuto e che i teologi del sud avevano la poesia, che la teologia europea era più fredda.


– Il suo modo di procedere è stato sempre poco conflittuale, sempre molto dialogico e carente di dramma. Qualcuno crede che corrispondi alla sua personalità, ma credo che ci sia qualcosa di profondamente ecclesiastico.

– Esatto. Tutto perché il mondo che più ispira la mia vita non è quello intellettuale. Non è la difesa delle mie idee perché sono le mie idee. Mi interessa la vita della Chiesa, l'annuncio del Vangelo e la vita delle conferenze episcopali.


– La teologia è indifferente all'impronta del suo tempo. Stiamo chiaramente entrando in un altro periodo, nel quale non si sente la stessa urgenza e si aprono altre strade alla fede.

– Fino ai quaranta anni non parlai mai della Teologia della Liberazione e credo che fossi un cristiano vero. Così sarò cristiano anche dopo la Teologia della Liberazione.Quando mi dicono che la Teologia della Liberazione è già morta io dico: "Beh guarda, a me non hanno invitato al funerale e credo che ne avessi il diritto". Poi aggiungo: "Beh guarda, credo che sicuramente un giorno morirà". Intendo che morirà il fatto che non avrà più la stessa urgenza di prima. Questo mi sembra normale, è stato un contributo alla Chiesa in un certo momento.


– Credo che si guardi bene dal non trasformare la teologia in un mito, in una ideologia nella difensiva.

– Non bisogna fare della teologia una nuova religione. E' la tendenza della società civile. Qualcuno pensa che la Teologia della liberazione è una specie di cristianesimo diverso, il mio. E lo dicono anche come elogio, non per criticare. Non credono nel cristianesimo ma nella Teologia della Liberazione si. Mi dispiace, l'importante è il cristianesimo, non la Teologia della Liberazione. Questa si capisce solo alla luce del cristianesimo.

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