mercoledì 23 settembre 2009

GUATEMALA NUNCA MAS

La morte differente


di Alessandro Di Battista

Santa Rita - Municipio La Libertad - Peten, Guatemala.

Si stima* che il conflitto armato in Guatemala (1961 - 1996) abbia prodotto 200.000 vittime innocenti. 45.000 è, ancora oggi, il numero delle bare vuote, silenziose, ma urlanti di giustizia. 430 sono i villaggi rasi al suolo e che ora non compaiono più nelle mappe del Paese.
L'esercito e le Pattuglie di autodifesa Civile (PAC) si sono macchiati di oltre 600 massacri, il più delle volte, a danno delle popolazioni indigene. Dovunque vada in Guatemala conosco persone che mi parlano degli anni della guerra e di qualche parente desaparecido. "Mio fratello non aveva nulla a che fare con i guerriglieri, ma sono arrivati gli squadroni e se lo son portato via". "Io sono riuscita a fuggire, ma prima ho visto sparare in testa a mia mamma e a mio papà". "Hanno ucciso mio cugino perché dicevano che aveva troppi polli. Secondo l'esercito li avrebbe regalati ai rivoluzionari".

L'odore della morte, da Hernan Cortez in avanti, si respira quotidianamente nelle terre maya. Sarà per questo, sarà perché si continua a morire di malattie diventate banali nel nord del mondo, o sarà per specifiche ragioni culturali, ma si parla e si affronta la morte in modo completamente differente rispetto a quanto capita di fare a noi. Donna Julia è morta la settimana scorsa, il diabete l'ha portata via abbastanza giovane. Julia è la mamma di Guaio, un mio buon amico che vive a Nuevo Horizonte, la comunità con cui sto lavorando seguendo un progetto di istruzione alternativa.

Ero stato a visitare Donna Julia appena arrivato in Guatemala. Una domenica mattina, stretti in un camion come bestiame mandato al macello, siamo partiti per andare a giocare a calcio a la Libertad. Tornando, ci siamo fermati a Santa Rita e abbiamo fatto visita alla signora malata. Casa sua era un'esplosione di confusione. Ricordo la sua stanza. Lei era distesa su un letto e rifiutava una minestra. Sull'altro letto dodici ragazzini ridevano e strillavano mentre nel salottino una ventina di parenti bevevano caffè. Mi ha stupito quell'atmosfera, a me così estranea. La morte non è mai una festa; in qualunque momento e per qualunque persona arrivi porta con sé dolore e lacrime.

Ciononostante ci sono infiniti modi per affrontarla. De Andrè dice che "quando si muore si muore soli", forse è così, ma forse no. Donna Julia mi è sembrata molto sofferente, ma non mi è sembrata sola, e chissà che le urla e le risate dei nipoti, a volte esagerate, non le abbiano addolcito il trapasso. Mentre la donnina, mangiata dalla malattia, tossiva, e ogni colpo di tosse sembrava avvicinarne la fine, un paio di minuscoli bambini giocavano a biglie sul suo letto sfruttando le sue esili gambe come parte della pista. Cosa pensava Donna Julia? Non lo so. So che se fosse stata mia zia, nessun mio parente mi avrebbe concesso quel gioco. Mi avrebbero rimproverato chiedendomi maggior rispetto e dicendomi che non sapevo cosa fosse la morte. Eppure anche da adulti non lo sappiamo affatto. L'ho chiesto a due bambini di Horizonte. Con la ricchezza della loro semplicità mi hanno spiegato perfettamente cosa essa sia. "Muori, ti mettono in una cassa di legno, poi arriva tanta gente a vederti e i tuoi parenti danno pane dolce e caffè per tutta la notte. Poi ti mettono sotto terra e dopo nove giorni ritornano a casa dove sei morto e mangiano e bevono". Io, dopo averci pensato a lungo, non saprei dare definizione migliore della morte in Guatemala.

Ho partecipato alla veglia funebre di Dona Julia. L'atmosfera era ancora più composita. Dalle 10 di sera alla 4 del mattino sono passati di fronte alla bara uomini ubriachi di birra e rum, bambini con pallone, polli, cani, donne che continuavano a servire caffè. Appena fuori dalla casa i più grandi giocavano con carte francesi a un gioco simile alla scala 40. Al termine della partita c'era chi ringraziava la defunta per la vincita appena consumata. Mi ha sconvolto la naturalezza dello spettacolo. La morte è tragica, ma lo è anche la natura.

Dalle nostre parti non facciamo altro che allontanare dalle menti, a volte con violenza, l'idea che siamo esseri limitati e che, presto o tardi, ci sarà per noi una fine. I mezzi di comunicazione trattano i decessi con un pathos esagerato e a volte fuori luogo che influisce nel farceli percepire avulsi alla nostra realtà. Forse perché pensare alla nostra morte ci permetterebbe di dare un valore più equilibrato alle cose e al senso del possesso. E questo è pericoloso. Perché impiegare la maggior parte del tempo a nostra disposizione nell'accumulazione se tanto siamo destinati a perdere tutto? La morte, funerali esclusi, non è produttiva per il sistema in cui viviamo. Meglio sbatterla fuori dalla porta, "ci penserò quando sarà tempo". Eppure questo meccanismo non fa i nostri interessi. In apparenza ci fa vivere più sereni ma ci trasforma in esseri altamente impreparati all'unica certezza della nostra esistenza. Ed è per questo che la perdita di un caro rappresenta un dolore a volte inaccettabile. C'è chi non trova più la forza per vivere se perde un figlio.

Ciò non avviene in Guatemala. Per questo fermarsi, prendersi il giusto tempo, superare con coraggio quel primo senso di angoscia che proviamo nell'imbatterci nell'ignoto con il pensiero, potrebbe essere un buon esercizio, non tanto per comprendere, ma quantomeno per accettare l'ineluttabile. E allora si che potremo dedicarci a tutto quel pacchetto di scoperte e azioni capaci di esorcizzare una tragedia pendente. In Guatemala sono all'ordine del giorno. Risate, ubriacature moleste, pentole di caffè, sigari da lasciare sulle tombe, antichi riti maya mischiati con Ave Maria durante i quali sacrificare polli ai defunti. La morte in Guatemala fa parte della natura. Per questo una mamma mi ha chiesto di prendere in braccio uno alla volta i suoi cinque figli per fargli vedere, nella bara ancora aperta, Donna Julia morta. La morte in Guatemala è parte della vita. Meglio prenderne atto e provare a ingentilirla. Meglio dipingere il cimitero di colori sgargianti che renderlo un posto ancora più triste di quello che già è per la sua funzione. Meglio la confusione a casa di Donna Julia che il rispetto silenzioso. La straordinaria bellezza del cimitero di Chichicastenango, nella regione del Quichè, è un esempio di tale differente approccio. Un trionfo di colori e architetture che alleviano le sofferenze dei vivi e allietano la permanenza dei morti. Un cimitero che a guardarlo bene, ti fa venire quasi voglia di morire.

venerdì 18 settembre 2009

Guatemala, Nunca mas


Il vento soffia sul lago Atitlàn. Tiepido e profumato mentre la barca scivola sull’acqua azzurra. Fragranza di muschio e raggi di ambra dorata dell’alba. E’ l’aria del Guatemala. Respiro l’atmosfera, ascolto il silenzio, guardo le perle della scia. Stormi di uccelli ammarano a piccoli passi fino a dondolarsi sull’onda.

Il paese dell’eterna primavera sui campi di mais, lungo i fiumi, giù per le cascate. Su nell’altopiano. “Patria dei perfetti mari… più salmastri oggi per i tuoi dolori. Patria delle perfette messi… giubilo del popolo, gente con cui ora nel dolore cresci… Il mio paese”. Afflato di parole e lacrime di Asturias, poeta guatemalteco.

Intorno allo specchio blu del lago, a 1500 metri di quota, sagome altere di vulcani spenti. Il verde intenso delle colline e sulle sponde i colori sgargianti delle gonne di giovani donne. Biancore degli ibis intrecciati agli alberi. Un cormorano si tuffa come un ago e riemerge col suo cibo. Poi galleggia, fiero.

Il mercato di Panajacel prende vita. Basse case, vicoli in pietra, verande fiorite. Scorci d’incanto e profumo di tortillas. Bancarelle ricche di fantasia e immaginazione. Toni su toni. Arcobaleni di colori dal rosso sangue al blu cobalto. Arancio, verde, viola. Frutta, boschi e tramonti. Riflessi del lago dei maya Kaqchiquel e Tz’ utujil.

La strada sale ripida zigzagando sulla montagna che si addolcisce come i sentimenti quieti di un ricordo, di uno sguardo. Di una carezza di vento che sfiora il volto distratto da un pensiero di bimbi che giocano nelle piazze. Tra tele, coperte, pane, dolci e maialini sotto lo sguardo attento di madri indaffarate nel tessere e vendere in un turbine chiassoso e vivace.

Bellezza disarmante di un panorama su ampie vallate. Aria sottile. Netta e chiara definisce i contorni, le curve femmine dei dossi. In alto il cielo si copre di un velo fino a gonfiarsi ed esplodere in pioggia affilata, silenziosa, impercettibile. Poi tutto diventa polvere.

Oltre la montagna, la regione del Quichè. Ultimo rifugio dei guerriglieri. Molti i posti di blocco e affiora un forte senso di disagio. Viaggiatori in terra martoriata da rivolte e repressioni dei campesinos. Dove la violenza è da sempre sovrana. Razzismo e misoginia non ancora sconfitte. Il pensiero va a Rigoberta Menchú e alle sue parole “ il Guatemala dovrà prepararsi a essere governato da una donna indigena”.

Armati fino ai denti, i militari controllano passaporti. C’è chi appoggia una bomba a mano in terra mentre fruga tra i cenci negli zaini. Poi la porge in segno di sfida. Sono giovani , sono le “tigri” del corpo antiguerriglia e sanno tutto sul “calcio italiano”. No gringos, no periodistas. Mi si gela il sangue. Ma sono italiana e conosco i nomi degli “azzurri”. Un lasciapassare valido in tutto il mondo.

La pista scende, poi sale. Si aggrappa, si stringe è irrequieta come i pensieri. Ora liquidi, bagnati da visioni di violenza, quando l’uragano del terrore passava nei villaggi, oltre alle macerie e ai corpi straziati e lasciava dietro di sé un popolo triste. E’ l’angoscia del crepuscolo delle idee.

L’aria è fresca a 2000 metri di quota. Chichicastenango si sveglia. E’ giorno di mercato. Aspetto l’alba sulle scalinate della chiesa di Santo Tomàs. Ho girovagato insonne per le stradine nel silenzio della notte interrotto dal rumore di quei pensieri, dal battito del cuore e dal pianto di qualche bimbo nelle piccole case.

Arrivano i carretti radenti ai muri delle case, in fila, uno dietro l’altro. Sono solo ombre. Cantano i galli col suono di un flauto. Lieve, delicato, angelico. Annuso profumo d’incenso. Il sole sbatte sul grande portone della chiesa e sui gradini si ammucchiano mazzi di gladioli rosa.

Il contorno delle cose si colora di fucsia, nero, giallo. Dovunque, nelle gonne, nelle giubbe. Sulle fusciacche che reggono i bambini sulla schiena delle madri. Occhi assonnati, visetti tondi, capelli di pulcini nerissimi, labbra imbronciate sbucano da quella tela che li unisce alla vita.

Suoni di tamburi, chitarre e marimbe. Intanto la piazza si riempie di maschere di madera intagliate a mano, frutta, verdura. Stoffe, montagne di gomitoli di lana colorata e centinaia di candele. Ti accorgi che qualcosa non va, stona. Non fa parte di quel dipinto. Non rientra nella cerimonia.

Capelli biondi. Arruffati. Che turbano le nere e lucide trecce. Pelle bianca, “Lacoste”, pantaloncini corti, scarpe da tennis.
Eccoli. Sono i turisti, puliti in fila serrata e li distingui dai viaggiatori, solitari coi sandali del Quichè e i pantaloni del Nepal. Scena dentro la scena. Quadro dentro il quadro. Matrioska di gente, rumori, suoni e colori. Volti su volti. Maschere.

La cera delle candele si scioglie sul pavimento della chiesa affollata. Voti. Suppliche per la semina, per la figlia malata. «Señor San Augustin, Señor San Esteban, Señor Santo Tomás… ayuda nosotros siempre…». Dolce babele di suoni, di note, di grida quasi strozzate. Volti umili segnati dal vento e dal sole. Fierezza antica. Si prega, si canta, si balla tra i fumi d’incenso. Fuori in processione, la Madonna mentre si contratta per una panca colorata. Si parla del tempo in dialetti diversi. Uno dentro l’altro. Vivaci e ciarlieri gli Indios discendenti dagli antichi Maya.

Oggi non si pensa ai morti assassinati lasciati ai bordi delle strade. Ai campesinos torturati. Alle croci innalzate lungo la strada protette dal verde quasi fosse un cimitero di campagna mitigando la crudeltà del loro messaggio. E’ giorno di festa. Domani qualche poeta canterà di vita e di morte. E ognuno porterà la sua maschera nel silenzio assassino.

martedì 15 settembre 2009

Carestia in Guatemala, morti 25 bambini: 54mila famiglie alla fame estrema


In un messaggio diffuso alla nazione per radio e televisione, il presidente Alvaro Colom ha dichiarato lo “stato di calamità pubblica” per l’intero territorio nazionale per affrontare la crisi alimentare provocata da un prolungato periodo di siccità che ha già provocato un numero imprecisato di vittime nel cosiddetto ‘corredor seco’, nella fascia orientale del paese. “Le conseguenze della crisi - riferisce l'agenzia Misna - non colpiranno solo i sette dipartimenti del ‘corredor seco’ ma tutto lo Stato. Questa decisione ci consentirà di avere accesso alle risorse della cooperazione internazionale e di mobilitarne quelle del bilancio nazionale con più agilità” ha detto il presidente rivolgendo un appello “a tutti i settori della vita nazionale affinché contribuiscano ad affrontare questo grave problema e le sue diverse manifestazioni”. Se fino a ieri le vittime accertate per fame risultavano 25, un ‘monitoraggio’ condotto dal ministero della Sanità tra gennaio e luglio pubblicato dalla stampa locale porta oggi il bilancio a 462, tra cui 54 bambini; almeno 54.000 sono le persone in qualche modo colpite e 400.000 potrebbero entro la fine dell’anno subire la stessa sorte, secondo proiezioni ufficiali che hanno portato Colom a parlare di una “tragedia di dimensione storica”. Secondo un recente studio della segreteria per la sicurezza alimentare negli ultimi tre mesi il numero dei comuni a rischio è aumentato del 113% (passando da 1901 a 4059) principalmente a causa della siccità che ha devastato fino al 90% dei raccolti di mais e fagioli, elementi centrali della dieta dei guatemaltechi, in sette dipartimenti tra i più poveri del paese; si calcola che praticamente tutti i guatemaltechi sotto la soglia di povertà – il 50% dei 13,3 milioni di abitanti, prevalentemente indigeni – siano a rischio di insicurezza alimentare. Il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu ha cominciato la distribuzione di 20 tonnellate di gallette ad alto valore nutritivo in 164 comunità. (R.P.)

Giustizia

Ogni giorno risulta più chiaro in tutto il mondo che il problema della giustizia non è della giustizia, ma dei giudici. La giustizia è nelle leggi, nei codici, dovrebbe essere quindi facile applicarla. Basterebbe saper leggere, capire quello che c’è scritto, ascoltare in maniera distaccata le arringhe dell’accusa e dell’accusato, i testimoni, se ce ne dovessero essere, e alla fine, con coscienza, giudicare. La corruzione ha mille facce e la peggiore è forse, in qualsiasi caso, la natura della relazione tra chi giudica e chi viene giudicato. Un caso tipico di perversione giudiziaria è accaduto recentemente in Guatemala dove l’editore Raúl Figueroa Sarti della casa F&G Editori è stato condannato a un anno di prigione commutabili con 25 quetzal al giorno e al pagamento di una multa di cinquanta mila quetzal, più le spese processuali. Quale crimine ha commesso Raúl Figueroa? Ha pubblicato, su richiesta, e con l’approvazione del rispettivo autore, Mardo Arturo Escobar, una fotografia che è stata poi inserita in un libro della F&G. Di questo libro sono state consegnati all’attuale accusatore alcuni esemplari. Ai giudici non è importato nulla che lo stesso Mardo Escobar avesse riconosciuto di aver consegnato volontariamente la fotografia a Raúl Figueroa, a cui ha dato l’autorizzazione verbale per utilizzarla in una pubblicazione. Quello che gli è importato, invece, è che l’accusatore fosse un suo collega: Mardo Arturo Escobar lavora al Quarto Giudizio della Sentenza Penale, è, quindi, compagno di lavoro di giudici, ufficiali e magistrati…
Ma questo caso non è un semplice episodio di bassa corruzione. La persecuzione di cui, da due anni, è stata oggetto la F&G Editori, si inquadra in una situazione repressiva che si sta vivendo in Guatemala, dove il potere ufficiale ha cominciato a perseguire e tentare di zittire le voci discordanti, queste che, senza desistere, continuano a denunciare le violazioni dei Diritti Umani nel paese. Da quello che si è visto, sembra corretto il vecchio gioco di parole tra Guatemala e Guatepeggio. Dai cittadini guatemaltechi ci si aspetta che l’innocente gioco non si trasformi in realtà.