giovedì 16 ottobre 2008

L'altro dio CHE E' FALLITO


MILLE MILIARDI PER SALVARE IL LIBERISMO DA SE STESSO, E ORA TUTTI A DIRE «REGOLE» Gianni Minà
Adesso voglio vedere se fra i coriferi del capitalismo a qualunque costo - umano, sociale, etico - ci sarà qualcuno che avrà l'onestà di dire che questa idea di società è miseramente fallita così com'era successo nell'89 al comunismo, e che quello che sta succedendo negli Stati uniti a banche e assicurazioni, che stanno trascinando nel baratro pensioni e risparmi di milioni di cittadini, è per l'Occidente uno sconquasso della stessa drammatica intensità della caduta del muro di Berlino per il mondo che si ispirava ai principi del marxismo.Perché questa fragilità, questa corrotta ambiguità del'economia di mercato era palese da tempo, eppure molti degli ultras del liberismo si ostinavano a sottolineare la «fine delle ideologie». Ma se scavavi tra le pieghe del discorso, scoprivi che in realtà l'unica ideologia che questi ultrà reputavano morta e da seppellire era quella comunista. E anche quando erano costretti ad ammettere che in nome del libero mercato erano stati compiuti crudeli genocidi (come in Africa o in America latina), con aria falsamente ingenua erano pronti a chiederti: «Ma cosa mi offri in cambio? Non esiste un'alternativa».E quindi si poteva mentire al mondo per fare le guerre, vendere armamenti, saccheggiare risorse, o si poteva condannare alla fame e alla miseria interi continenti, magari per difendere solo i privilegi e le sovvenzioni ai contadini di Stati uniti, Francia o Italia, o ancora si poteva continuare a rapinare le richezze dell'umanità meno attrezzata, meno pronta ad affrontare le sfide capziose del mercato.Perché annientare l'80% dell'umanità per le logiche dell'economia capitalista era ed è evidentemente più accettabile, più democratico, meno scandaloso che morire in un gulag o non avere abbigliamento firmato o McDonald's. Così come non è inquietante se a controllare l'informazione, a ideologizzare e indirizzare la tua vita non sono ottusi burocrati di partito, ma la concentrazione dei mezzi nelle mani di pochissimi, che hanno il controllo di apparecchiature degne del Grande fratello di Orwell.Ci avevano detto, e quasi stavamo per crederci, che il capitalismo era l'unica salvezza dell'umanità, un sistema che aveva una soluzione per tutto, perché comandava l'infallibile mercato e la ricetta si era rivelata indiscutibile: quando l'economia non funzionava, bastava privatizzare e tutto si sarebbe risolto.Così quando il governo di Washington dell'ineffabile Bush e del suo vice, l'affarista Cheney, ha deciso, fregandosene dell'ideologia liberista fino a ieri Vangelo, di salvare, nazionalizzandoli, i due colossi dei mutui Fannie Mae e Freddy Mac (l'8 settembre) e pochi giorni dopo (il 17 settembre), con un intervento della Banca centrale ha tolto dal gorgo dal fallimento l'Aig (American International Group), il gigante delle assicurazioni, è stato chiaro che tutta la retorica del «più mercato - meno stato» era una burla, un'escamotage dei mercati finanziari per privatizzare, quando c'erano, i guadagni e socializzare le perdite.Una presa per i fondelli colossale, senza il minimo pudore, se uno come Giulio Tremonti, il ministro dell'economia di un governo come quello di Silvio Berlusconi, che le regole non le ha mai rispettate, si è subito adeguato come un burocrate sovietico: «Dalla crisi si esce con più intervento pubblico. Se il male è stato l'assenza di regole, la cura può essere solo nella costruzione di regole». Neanche un ministro democristiano dell'epoca della Cassa del mezzogiorno avrebbe potuto cambiare abito così in fretta.Ma lo stesso atteggiamento hanno tenuto i più prestigiosi giornali europei: La Repubblica, quotidiano italiano un tempo di sinistra, titolava il 20 settembre in prima pagina, con assoluta disinvoltura: «Terapia Bush, Borse in festa». Di fatto presentando in positivo quello che fino a ieri, nel capitalismo, era considerata un'eresia: l'intervento in extremis dello stato nel mercato, ovvero l'ultima, disperata mossa politica di quello che molti cittadini nordamericani giudicano da tempo come il peggior presidente che il paese abbia avuto nell'ultimo secolo. La decisione del governo Bush scarica sui contribuenti americani, come fa rilevare sempre su La Repubblica Federico Rampini, un onere oggi incalcolabile e potenzialmente illimitato, pur di frenare la catena di crac delle maggiori istituzioni finanziarie e le conseguenti pericolose ondate di panico.Ma quest'analisi onesta e realistica non ha suggerito un titolo meno trionfalistico per il piano da mille miliardi di dollari (in proporzione più del piano Marshall varato nel 1947 dal presidente Truman per aiutare l'Europa a rialzarsi) messo in marcia dal ministro del tesoro Usa. D'altronde, il mondo della finanza neoliberista ha sempre preferito illudere, nascondere e mascherare, sperando follemente che nulla alla fine cambiasse.Pochi anni fa, la benemerita Fondazione Ambrosetti che organizza le giornate di Cernobbio, sul lago di Como, dove si incontra ogni anno la creme de la creme dell'economia liberale (o presunta tale) mi contattò perché sentiva l'esigenza di far ascoltare, per una volta, una voce dissonante a una compagnia di giro dove i primi attori erano quasi sempre Shimon Peres, Henry Kissinger o perfino l'ex premier spagnolo Aznar, nemico giurato di tutte le ricette sociali antiliberiste.Avrebbero voluto invitare il presidente cubano Fidel Castro: «Non condividiamo la sua linea intransigente - mi dissero - ma forse è arrivato il momento di confontarsi con le ragioni di chi, prima di papa Wojtyla, affermò, fin dalla metà degli anni 80, che il debito estero di molte nazioni del Sud del mondo era immorale e impagabile». Una scelta fuori dal pregiudizio. Li misi in contatto con l'ambasciatore cubano in Italia, anche se ero scettico sulla possibilità che quell'idea sarebbe stata accettata dagli abituali frequentatori del meeting di Cernobbio.Il presidente cubano non aveva spazio nella sua agenda per aderire a quell'invito e allora io consigliai ai dirigenti della Fondazione Ambrosetti di chiedere aiuto a Eduardo Galeano, coscienza critica dell'America latina e di quello che chiamano il Terzo mondo, che proprio in quei giorni usciva anche in Italia con un libro emblematico, «A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia». Eduardo accettò l'invito e inviò in anticipo il testo del suo intervento, basato su alcune delle brevi e paradossali composizioni, spesso intrise di ironia, che si susseguono nei suoi saggi e sono tipiche del suo modo di raccontare la storia e il mondo. Concedette anche un'anteprima al giornale La Stampa di Torino, che uscì la mattina in cui Galeano avrebbe dovuto intervenire.Avrebbe. Perché, con un certo imbarazzo quelli della Fondazione avvisarono la sera prima lo scrittore de «Le vene aperte dell'America latina» e ora di «Specchi, una storia quasi universale» che, per l'obbligatorio inserimento nel programma di un ospite politico fino a quel momento in forse, non ci sarebbe stato più spazio per il suo intervento. Galeano la prese con un sorriso disincantato: «Quelli dell'economia neoliberale considerano le loro convinzioni un dogma che non può essere discusso. Per questo li hanno definiti 'i paladini del pensiero unico'. Ma non si illudano, sarà la storia a smentirli».Così a quanto pare è stato, anche se finora è mancato il coraggio di dire, chiaro e tondo, che nel mese di settembre del 2008 è crollato anche il muro del capitalismo. D'altronde non poteva che finire così. Il neoliberismo si regge in piedi continuando ad ammucchiare bugie, con i giornalisti, incapaci, la maggior parte delle volte, di tenere la schiena dritta, e invece tesi pateticamente a sostenere argomenti che non stanno in piedi e a scrivere parole in libertà per giustificare l'ingiustificabile.È sufficiente dare uno sguardo alla Direttiva del Rientro, approvata lo scorso 18 giugno dal Parlamento europeo, per capire quanto sia in decomposizione la democrazia in un'Europa pavida e impaurita, mentre in altri continenti, come l'America latina, fino a ieri carente di diritti per tutti, spira un'aria nuova, dove il riscatto di nazioni indigene come Bolivia ed Ecuador comincia proprio da una riscrittura rigorosa e seria di una Costituzione che rispetti tutti. Non solo, come avveniva fino a pochi anni fa, le oligarchie bianche e predatrici.Proprio Galeano, nella cerimonia in cui, in Paraguay, il giorno dell'assunzione dell'incarico di presidente da parte di Fernando Lugo, è stato dichiarato Cittadino illustre del Mercosur, non ha evitato il sarcasmo riguardo all'ipocrisia delle nazioni del Vecchio continente: «L'Europa ha approvato da poco la legge che trasforma gli immigrati in criminali. Paradosso dei paradossi», ha aggiunto. «L'Europa, che per secoli ha invaso il mondo, sbatte la porta sul naso degli invasi una volta che questi ricambiano la visita».Per capire quanto è grande questa crisi di credibilità dell'Occidente, è sufficiente considerare come, negli ultimi tempi, dai media di casa nostra è stato raccontato il braccio di ferro che il giovane presidente della Bolivia, Evo Morales, ha intrapreso contro i prefetti secessionisti delle ricche provincie orientali del suo paese, per ora bloccati, senza mortificare la democrazia, nelle loro strategie eversive sostenute, oltre che dalla Cia e dalla peggiore diplomazia nordamericana, dagli eredi dei vecchi ustascià croati, riparati, dopo la seconda guerra mondiale, nella Bolivia delle dittature militari e delle centinaia di colpi di stato.Con questi figuri ci sarebbero perfino vecchi attrezzi del neofascismo golpista italiano come Marco Marino Diodato, che nella notte tra l' 11 e il 12 settembre, avrebbe organizzato gli squadroni della morte legati ai gruppi civici che si battono, con la scusa dell'autonomia regionale, contro l'idea di nazione e di democrazia di Evo Morales. Nel massacro di El Porvenir (nella provincia di Pando) sono stati uccisi quindici contadini che si recavano ad una manifestazione di appoggio al presidente.Con chi dovrebbe stare la stampa democratica dell'Occidente? Sarebbe facile rispondere con il giovane presidente boliviano. E invece, per non dispiacere alle spericolate politiche dell'amministrazione Bush in America latina come in altre parti del mondo, i media non sanno nascondere una certa condiscendenza per la secessione, per il tentativo di destabilizzazione che l'ex ambasciatore Usa Goldberg, ora rispedito a Washington, ha perseguito, finora senza risultati concreti, in questi mesi intensi e sofferti del paese in cui si immolò Che Guevara. E così hanno parlato di «paese diviso in due», di «pareggio», di «stallo», pubblicando cartine geografiche sul consenso politico del presidente nel paese chiaramente fuori dalla realtà, come dimostra l'annuncio di avvio di un dialogo da parte dei prefetti secessionisti ribelli,La linea da tenere sull'argomento, come su tutta la febbre di riscatto che cresce in America latina, sempre più lontana dall'essere il «cortile di casa» degli Stati uniti, la dà El País, il potentissimo quotidiano spagnolo che ha ramificazioni e interessi in tutto il Cono sud. E lo fa quasi sempre con le parole astiose di Mario Vargas Llosa, uno scrittore straordinario che però, come tanti, non si dà ancora pace di essere stato in gioventù un militante comunista, e quindi non apprezza il vento di cambiamento che soffia nel continente.Dario Fertilio, che lo ha intervistato sul Corriere della Sera, e Angelo Panebianco che gli ha dedicato la sua rubrica sul magazine dello stesso giornale, si dolgono così del fatto che, al contrario di quanto succede con gli scritti politici di García Marquez, di Luis Sepúlveda e di Eduardo Galeano, quelli di Vargas Llosa non vengano fatti conoscere in Italia. La colpa viene data ovviamente a una cronica malattia della nostra editoria che, secondo Panebianco «continua a essere convinta che 'cultura' sia sinonimo di 'sinistra'». Perché, non è così professore? E, mi perdoni, l'editoria italiana, a cominciare dal colosso Mondadori, a chi è in mano? Forse, nella logica neoliberista ora improvvisamente in crisi, il Vargas Llosa saggista non è pubblicato solo perché non è ritenuto interessante per il mercato. So che è sconveniente, ma forse è proprio questa la ragione di questa dimenticanza, anche se lei parla di «offerta politicamente monocorde che influenza e plasma la domanda». Tanto per la verità, professore, e per non prendere per i fondelli i lettori...
Dal "Manifesto" del 7 ottobre 2008

martedì 14 ottobre 2008

Altre otto donne stuprate e uccise, 607 dall'inizio dell'anno

Altre otto donne sono state uccise in Guatemala negli ultimi tre giorni, portando a 607 il bilancio di quelle uccise dall'inizio dell'anno. Lo ha riferito ieri sera la polizia guatemalteca. I cadaveri di due ventenni, stuprate e poi uccise a colpi di pistola, sono stati trovati a Escuintla, 60 chilometri a sud della capitale. Altre due donne, tra cui una incinta di cinque mesi, sono state uccise in un piccolo paese del sud, Chiquimila. Le altre vittime sono una studentessa di 17 anni e una donna di 47 ammazzate lunedì, sempre a colpi d'arma da fuoco, in un quartiere periferico di Città del Guatemala. Stessa sorte è toccata ieri a due donne, i cui corpi sono stati rinvenuti a Mixco e a Villa Canales.

Il vero costo degli Agro-Combustibili

Una nuova relazione svela il costo reale degli agrocombustibili in America Latina La rapida espansione degli agrocombustibili in America Latina porta uno scenario di grandi benefici imprenditoriali e di scarsi benefici per la popolazione locale, secondo una nuova relazione presentata dagli Amigos de la Tierra Internacional. Il nuovo studio, intitolato "Fomentando la distruzione in America Latina", riflette gli sviluppi attuali e futuri in vari paesi dell'America Centrale e del Sud, dove la produzione di agrocombustibili sta aumentando in maniera esponenziale per soddisfare i mercati interni e per soddisfare la richiesta di diesel e di benzina dell'Europa e degli Stati Uniti. La relazione mostra come l'aumento delle terre destinate agli agrocombustibili significhi l'aumento della deforestazione e la distruzione di flora e fauna, l'esasperazione dei conflitti della terra, l'espulsione delle comunità rurali, con il conseguente impoverimento delle condizioni lavorative e la contaminazione ambientale. Paul de Clerck, portavoce di Amigos de la Tierra Internacional, ha detto: "Coltivare agrocombustibili su vasta scala in America Latina è assolutamente insostenibile e non aiuta la popolazione locale ne l'ambiente. Gli agrocombustibili portano a far si che le multinazionali agricole, gli speculatori finanziari ed i grandi proprietari terrieri ottengano grandi benefici sulle spalle della popolazione e dell'ambiente". Lo studio evidenzia che: - I prodotti altamente dipendenti dai pesticidi chimici, dai fertilizzanti e dalle grandi quantità di acqua , stanno diventando monocoltivazioni. Queste grandi piantagioni stanno rimpiazzando le altre attività agricole nelle zone delicate come le selve e pianure e danno come risultato la deforestazione generalizzata, oltre a minacciare la biodiversità. - Le condizioni di lavoro sono molto povere, considerate di moderna schiavitù. E' considerato normale l'impiego di lavoratori infantili. La speculazione sui terreni sta portando all'innalzamento dei prezzi della terra e la produzione degli agrocombustibili cancella la produzione alimentare a livello locale. - Si stanno spostando le comunità rurali per lasciare spazio alle piantaggioni, aumentando i conflitti sui diritti della terra in tutti i paesi. La produzione degli agrocombustibili si attua in maniera poco trasparente e democratica, senza nessuna pianificazione sull'uso della terra e in qualche caso con l'utilizzo della violenza e l'implicazione dei gruppi paramilitari. - Le strette connessioni tra affari e politica fomentano i governi che presentano politiche che attraggono le multinazionali agricole, come le detrazioni fiscali, diritti della terra e infrastrutture. Questa stretta relazione implica anche i conflitti d'interesse, la corruzione e i governi che fanno finta di non guardare le attività illegali dei proprietari terrieri e dei produttori. - I grandi produttori, commercianti e investitori vedono come aumentano i loro benefici grazie all'ampliamento delle vendite delle materie prime, investimenti agricoli e guadagni finanziari delle speculazioni terriere. Le multinazionali sono sempre più implicate in tutti i paesi dell'America Centrale e del Sud esaminati in questo studio. - "Il conflitto sociale ed i problemi ambientali si esaspererebbero con gli obiettivi dettai dall'Unione Europea per l'uso degli agrocombustibili. L'espansione delle piantagioni su vasta scala con le coltivazioni per la produzione degli agrocombustibili non è sostenibile. L'aumento della domanda europea di agrocombustibili non può essere una soluzione alle crisi climatiche ed energetiche. La soluzione è ridurre il consumo e risparmiare energia", ha aggiunto Lucia Ortiz, Coordinatrice degli Amigos de la Tierra. - Il Parlamento Europeo vota domani alla Commissione dell'Industria sull'introduzione degli agrocombustibili nell'Unione Europea. Questo obiettivo dato prima per il 10% al 2020, ha avuto una modifica con la votazione nella Commissione di Medio Ambiente lo scorso mese di luglio. Varie organizzazioni ecologiste, di cooperazione e altri collettivi hanno inviato una lettera congiunta agli Eurodeputati spagnoli sollecitando un loro voto negativo. David Sánchez, responsabili dell'agricoltura di Amigos de la Tierra Spagna, ha detto: "Abbiamo bisogno che l'Unione Europea smetta di promuovere una produzione così deleteria. Gli agrocombustibili non sono la soluzione per i nostri problemi climatici ed energetici ed inoltre aggravano i problemi sociali, ambientali e dei diritti umani già esistenti nei paesi del Sud".

Le riflessioni dei popoli indigeni


"Prima di essere vittime siamo popoli con autonomia e governi propri" Riflessioni presentate dai delegati del popolo Wayúu, Arhuaco (Ika) e Wiwa, partecipanti alla Quinta Assemblea Congressuale Regolamentaria dello Statuto delle Vittime della Violenza, tenutasia Valledupar (Cesar), il 12 settembre 2008. Trattare allo stesso modo ciò che è diverso costituisce comunque una forma di discriminazione e di razzismo. Si spera che tra i principi generali del progetto di legge insieme a quello di uguaglianza, ci sia anche il riconoscimento ed il rispetto della diversità etnica e culturale del paese. In questo contesto è necessario che si chiarisca che l'attenzione alle vittime dato dal progetto di legge deve compiersi con un diverso punto di vista, che tenga conto della cosmovisione, dei valori identitari e degli usi e costumi dei popoli indigeni e degli altri gruppi etnici (afrodiscendenti, Raizal e Rom). Il progetto di legge deve evitare a tutti i costi l'assunzione di posizioni che neghino l'esistenza del conflitto armato in Colombia e le azioni del paramilitarismo. La pretesa del governo nazionale e dei diversi settori politici uribisti di negare il conflitto armato in Colombia, non aiuta a garantire i diritti alla verità, alla giustizia e al risarcimento delle vittime. Si pretende di negare che le strutture paramilitari continuino ad attuare, sotto nuove forme e con nuovi contenuti. Molte delle vittime delle Aquile Nere o delle denominate dal Governo Bande emergenti criminali (BACRIM), rimangano fuori da questa legge, per quanto secondo la legge governativa queste non sarebbero vittime del paramilitarismo ma delle bande mafiose e delinquenziali. E' molto importante che l'universo delle vittime si sia ampliato fino a comprendere coloro che lo furono per colpa di agenti dello Stato e della Forza Pubblica, visto che fino ad ora venivano escluse da tutte le norme esistenti. E' comunque necessario che nel testo di legge rimanga stabilito con chiarezza la responsabilità dello Stato, di azione o di omissione, nelle gravi violazioni ai Diritti Umani e nelle infrazioni al Diritto Internazionale Umanitario che si sono verificate. Il progetto di legge deve stabilire chiaramente delle distinzioni tra quello che costituisce l'aiuto umanitario ed il riconoscimento dei diritti economici sociali e culturali (DESC), i quali sono funzione dello Stato, da tutto quello che riguarda la giustizia integrale. Si stima che le norme e le disposizioni legali contenute nel decreto 1290 del 22 aprile 2008 "per mezzo del quale si crea il Programma di Risanamento per via amministrativa" è una maniera di abbassare gli standard dei diritti che risarciscono le vitime. Bisogna aggiungere che l'armonizzazione di queste due norme finisce per generare una grande ambiguità che finisce per penalizzare i diritti delle vittime. Anche se il progetto di legge segnala la strada per il risanamento integrale, si riferisce ad un ambito individuale e, in questo senso, dice molto poco in riferimento al collettivo. In questo senso i popoli indigeni e gli altri gruppi etnici sentono un grande vuoto e continuano ad essere isolati com soggetti collettivi di diritto. I danni causati ai nostri patrimoni culurali ed intellettuali, non possono essere risarciti e riparati adeguatamente, anche perché da un punto di vista economico non si possono contabilizzare con facilità. Bisogna chiarire che le basi di un eventuale risarcimento dei popoli indigeni e degli altri gruppi etnici, si basano sulle adeguate garanzie per il recupero, il consolidamento ed il pieno controllo dei loro nostri ancestrali. Anche se nel testo di legge si menzionano meccanismi per la restituzione delle terre, questo non è sufficiente per i nostri popoli, visto che non si fa riferimento esplicito ai nostri territori, i quali hanno una speciale connotazione e significato per tutti i popoli indigeni e gli altri gruppi etnici. Il concetto di Consulta Previa dovrebbe essere ingrandito fino ad includere il Consenso Previo, Libero ed Informato che da maggiori garanzie, visto che la Consulta Previa ha finito per diventare un mero procedimento amministrativo. Il Consenso Previo, Libero ed Informato permette ai popoli indigeni e agli altri gruppi etnici di opporsi a qualsiasi tentativo lesivo nei confronti delle nostre culture e cosmovisioni.

12 Ottobre: 516 anni di oppressione dei popoli Americani


12 Ottobre: 516 anni d'invasione, colonizzazione ed oppressione dei popoli del continente Americano Il 12 ottobre si compiono 516 anni d'invasione, colonizzazione, oppressione e dominazione dei popoli indigeni di Abya Yala, popoli ancestrali che oggi si trovano organizzati in comunità, popoli che hanno resistito ed affrontato le politiche di etnocidio, genocidio e saccheggio delle proprie ricchezze. Il 12 Ottobre del 1492, giorno in cui Cristoforo Colombo arrivò in una piccola isola del continente americano e vi prese possesso illegale in nome di Dio, dei Re di Castiglia e di una religione, non avvenne nessuna scoperta come si è affermato per nascondere il più grande genocidio della storia dell'umanità che generò la morte di 20 milioni di aborigeni, la scomparsa di civiltà centenarie, il saccheggio delle loro ricchezze e la distruzione delle loro culture. Questo fatto segnò il punto di partenza della resistenza indigena che nonostante sia stata soffocata a sangue e fuoco, è culminata tre secoli dopo in una ribellione che seppellì per sempre l'impero spagnolo. La maggior parte degli storici hanno denominato in maniera semplicistica questo giorno come quello della "Scoperta" e indicato come tappe delle "scoperte minori" tutte le spedizioni che a partire da questa data e fino al 1526, hanno realizzato i naviganti e gli avventurieri spagnoli che hanno invaso le isole dei mar dei Caraibi e della costa venezuelana. Non considerando che queste terre e altre più a nord e a sud erano già abitate da civiltà come quella azteca, inca, chibcha ed altre estinte come quella maya, avanzate tanto quanto quelle del vecchio continente. E adesso vogliono rimediare all'errore dicendo che fu "un incontro di due culture", come se fosse stato un pacifico atto protocollare estraneo ad ogni azione distruttiva e genocida. Nonostante la fine della dominazione spagnola, nell'attualità le comunità (in particolare le comunità indigene e contadine) continuano a pagare le conseguenze della politica neoliberale. Nella ricerca e nella concentrazione della ricchezza stanno distruggendo la natura attraverso lo sfruttamento irrazionale delle risorse naturali. Tutto ciò è la causa dello sfollamento delle comunità e del loro abbandono forzato dei territori. La madre Terra ha vita e ci chiede a gran voce di salvarla dalla sua eminente distruzione e con essa dalla nostra.Nella cornice della Resistenza e Mobilitazione Continentale dei popoli dell'Abya Yala, in difesa dei Territori e dei Beni Naturali, diciamo basta alla politica di Criminalizzazione e Si alla costruzione di un Perù Plurinazionale. I popoli indigeni hanno convocato per i giorni 11 e 12 ottobre l'"Assemblea Nazionale del Movimento Sociale Incontro dei Popoli", nella città di Lima. Negli stessi giorni si tiene in Italia, a Genova, una mobilitazione convocata dal Comitato per il Giorno della Memoria del Genocidio Indigeno (composto da decine di associazioni e di organizzazioni tra le quali A Sud), per chiedere che l'11 ottobre sia riconosciuto come la Giornata della Memoria del Genocidio Indigeno.

I 40 della Teologia della Liberazione


Intervista a Padre Gustavo Gutiérrez, di Angel Dario Carrero


- Quando ha iniziato ad assumere come punto di partenza della teologia, la realtà della violenza e della povertà in America Latina e nei Caraibi?

– Ho cominciato a lavorare nel marzo del '64. Ci fu una riunione convocata da Iván Illich. Lo ho conosciuto quando stava ancora a Porto Rico nel '60. E' stato Ivan a organizzò una riunione molto informale a Petrópolis per farci vedere il lavoro fatto dalla teologia in America Latina.


– E quale è stato il suo contributo?

– Ho parlato di teologia come una riflessione sulla fede e la vita cristiana. Quello che poi ho formulato più tardi come riflessione critica sulla prassi alla luce della fede.


– La prima cosa che sorge è la decisione di un metodo che prende le mosse dalla vita reale per illuminarla alla luce della Parola ed aprire cammini concreti di liberazione?

– E' proprio così. Io ho trascorso praticamente tutti i miei studi di teologia preoccupatissimo dalla questione del metodo. Da lì la frase: "il nostro metodo è la nostra spiritualità".


– Il tema della vicinanza ai poveri non è una novità, ma l'indagine sulle cause della povertà e la lotta contro la povertà come parte dell'identità cristiana si che lo sono. Quando è iniziata questa transizione?

– Mi hanno invitato a parlare sulla povertà a Montreal nel 1967. Volevano prendere le distanze da Voillaume, l'autore di "Nel cuore delle masse", perché evitava qualsiasi prospettiva sociale in torno alla povertà. Ma la verità è che non si può evitare la questione sociale. Raccontai di tre nozioni bibliche sulla povertà: per primo la povertà reale o materiale, vista sempre come un male. La seconda è la povertà spirituale, come sinonimo d'infanzia spirituale. Lo povertà spirituale è mettere la mia vita nelle mani di Dio. Lo sperpero dei beni è la conseguenza della povertà spirituale. E la terza dimensione è la solidarietà con i poveri, contro la povertà. Voillaume diceva che bisognava essere poveri. Si, molto bene, ma per quale motivo? Che senso ha? Non è solo per santificarsi. Bisognava pensare a cosa poteva significare per l'altro.


– Qualche altro elemento importante di questa prima fase?

– Una preoccupazione: come annunciare il Vangelo oggi? La teologia si fa per annunciare il Vangelo, al servizio della Chiesa, della comunità. Ci sono molte facoltà che pensano alla teologia come una metafisica religiosa, non come annuncio storico di liberazione.


– Quando comincia a chiamarsi Teologia della Liberazione questo nuovo modo di pensare la fede dalla prospettiva del povero e dell'escluso?

– Il 22 luglio del 1968 a Chimbote, in Perù. Mi chiesero di parlare di "teologia dello sviluppo" e mi negai. Gli dissi che avrei parlato di teologia della liberazione, che era più pertinente a questo contesto. Un'altra cosa che era di moda era la "teologia della rivoluzione", dalla quale presi le distanze. Il pericolo era quello di cristianizzare un fatto politico.


– A differenza di altri, lei non è mai stato d'accordo con partiti o gruppi come la Democrazia Cristiana o con i Cristiani per il Socialismo, anche se accentuava la dimensione politica della fede. Perché?

– Non mi è mai piaciuto che si usasse cristiano come aggettivo. Cristiano è un sostantivo. Ho sempre detto: "Sono cristiano per Cristo, non per il socialismo". Che come cristiano qualcuno scelga di essere socialista è un'altra cosa, ma non si può dedurre il socialismo dal cammino della Bibbia. Dalla Bibbia si può dedurre la giustizia, il sostegno ai poveri. La gente quando non lo capisce dice: "Senti, ma tu neghi la politica, sei contrario". Io rispondo che credo anche nell'autonomia del sociale e del politico.


– Quando è iniziata l'idea di formare il libro che si trasformerà nel testo fondante della teologia latino americana contemporanea: teologia della liberazione. Prospettive?

– In realtà non pensai a scrivere un libro vero e proprio. Uno lavora ai temi che gli interessano e poco a poco ne esce. All'inizio del 1969, poco dopo Medellin, una commissione ecumenica sulle tematiche dello sviluppo mi invitò a Ginevra. Quindi ripresi il documento che avevo scritto a Chimbote e lo ampliai.


– C'è stata qualche offerta concreta da parte di qualche casa editrice?

– No, ma in quel momento passò Miguel d'Escoto, di Maryknoll, che aveva appena fondato Orbis Books. Vedendo il libro mi disse: "Lo pubblico". E' stato il primo libro pubblicato da questa casa editrice. Lo ha fatto tradurre e lo ha pubblicato nel 1973. E' stato il libro più venduto di questa casa editrice. Poi è passata la casa editrice di Sígueme, della Spagna, ed è successo lo stesso. Un altro che si interessò fu Gibellini. L'edizione italiana è precedente a quella spagnola. E' già tradotta in dieci o dodici lingue, tra le quali c'è il vietnamita ed il giapponese.


– Quali sono le critiche principali che ha ricevuto il libro?

– Io direi che più che al libro, le critiche erano già nei confronti della Teologia della Liberazione. Già tanta gente scriveva. Si criticava la visione marxista dell'analisi della realtà, ma io non mi sono sentito chiamato in causa. Adesso l'opposizione più forte che abbiamo avuto non è stata dentro la Chiesa ma in qualche componente della società civile, nei poteri di fatto, economici, militari, politici.


– La discussione aperta è segno di una teologia che dice qualcosa all'uomo e alla donna di oggi, che genera dialogo critico non solo all'interno della chiesa ma anche nella società.

– Buona parte delle reazioni sono nate dall'accoglienza che ho avuto. Se fossi rimasto in un ambiente di intellettuali non avrei avuto questo impatto. Ho avuto un'accoglienza dalla base, anche con espressioni che non mi hanno mai convinto, ma che dimostrano la buona volontà, che dicono: "Io sono della Teologia della Liberazione". Ma la Teologia della Liberazione non era ne è un club al quale uno s'iscrive, ne un partito. C'era chi si decantava un membro e dopo dicevano quello che volevano e non sempre corrispondeva a quello che si pensava. Sono cose inevitabili.


– C'era anche la necessità di trovare dei difetti ad una teologia che proveniva dal sud.

– Un giornalista statunitense mi ha chiesto: "Che cosa pensa la Teologia? Se uno si lascia trasportare solo da quello che scrive la stampa sembra che lei sia stato condannato dalla Chiesa. E non è vero. E' curioso. Nel mio caso non c'è stata mai condanna, e neanche un processo. Quello che c'è stato è una richiesta di dialogo, domande a cui sono stato sempre disposto a rispondere.


– Le sembra valido questo tipo di dialogo?

– Ho sempre creduto che la teologia si fa all'interno della Chiesa. Nella Chiesa ci sono diversi carismi. A chi scrive di teologia gli si può chiedere che dia ragione della sua fede, così come diamo ragione della nostra speranza. A questo livello di domande non bisogna offendersi.


– Quanto è durato il dialogo?

– E' iniziato nel 1983 e si è concluso in vari modo, ma ufficialmente cinque anni fa. Durante molto tempo tutto è rimasto in silenzio. Non ci fu nulla con me.


– Che dice il testo ufficiale?

– L'espressione è che tutto si concluse in modo soddisfacente.


– Ci sono stati vari incontri faccia faccia con il cardinale Joseph Ratzinger?

– Si, alla maggior parte di loro non sono stato convocato ma io stessi presi l'iniziativa di andare. Ratzinger è un uomo intelligente, educato e dentro della sua mentalità è evoluto, ha capito molte cose. In un'occasione a Roma mi ha detto che aveva letto il mio libro su Job. Io stesso gli inviavo i miei libri. Ho sempre creduto che la distanza crei fantasmi. Mi disse che gli era piaciuto e che i teologi del sud avevano la poesia, che la teologia europea era più fredda.


– Il suo modo di procedere è stato sempre poco conflittuale, sempre molto dialogico e carente di dramma. Qualcuno crede che corrispondi alla sua personalità, ma credo che ci sia qualcosa di profondamente ecclesiastico.

– Esatto. Tutto perché il mondo che più ispira la mia vita non è quello intellettuale. Non è la difesa delle mie idee perché sono le mie idee. Mi interessa la vita della Chiesa, l'annuncio del Vangelo e la vita delle conferenze episcopali.


– La teologia è indifferente all'impronta del suo tempo. Stiamo chiaramente entrando in un altro periodo, nel quale non si sente la stessa urgenza e si aprono altre strade alla fede.

– Fino ai quaranta anni non parlai mai della Teologia della Liberazione e credo che fossi un cristiano vero. Così sarò cristiano anche dopo la Teologia della Liberazione.Quando mi dicono che la Teologia della Liberazione è già morta io dico: "Beh guarda, a me non hanno invitato al funerale e credo che ne avessi il diritto". Poi aggiungo: "Beh guarda, credo che sicuramente un giorno morirà". Intendo che morirà il fatto che non avrà più la stessa urgenza di prima. Questo mi sembra normale, è stato un contributo alla Chiesa in un certo momento.


– Credo che si guardi bene dal non trasformare la teologia in un mito, in una ideologia nella difensiva.

– Non bisogna fare della teologia una nuova religione. E' la tendenza della società civile. Qualcuno pensa che la Teologia della liberazione è una specie di cristianesimo diverso, il mio. E lo dicono anche come elogio, non per criticare. Non credono nel cristianesimo ma nella Teologia della Liberazione si. Mi dispiace, l'importante è il cristianesimo, non la Teologia della Liberazione. Questa si capisce solo alla luce del cristianesimo.