venerdì 18 settembre 2009

Guatemala, Nunca mas


Il vento soffia sul lago Atitlàn. Tiepido e profumato mentre la barca scivola sull’acqua azzurra. Fragranza di muschio e raggi di ambra dorata dell’alba. E’ l’aria del Guatemala. Respiro l’atmosfera, ascolto il silenzio, guardo le perle della scia. Stormi di uccelli ammarano a piccoli passi fino a dondolarsi sull’onda.

Il paese dell’eterna primavera sui campi di mais, lungo i fiumi, giù per le cascate. Su nell’altopiano. “Patria dei perfetti mari… più salmastri oggi per i tuoi dolori. Patria delle perfette messi… giubilo del popolo, gente con cui ora nel dolore cresci… Il mio paese”. Afflato di parole e lacrime di Asturias, poeta guatemalteco.

Intorno allo specchio blu del lago, a 1500 metri di quota, sagome altere di vulcani spenti. Il verde intenso delle colline e sulle sponde i colori sgargianti delle gonne di giovani donne. Biancore degli ibis intrecciati agli alberi. Un cormorano si tuffa come un ago e riemerge col suo cibo. Poi galleggia, fiero.

Il mercato di Panajacel prende vita. Basse case, vicoli in pietra, verande fiorite. Scorci d’incanto e profumo di tortillas. Bancarelle ricche di fantasia e immaginazione. Toni su toni. Arcobaleni di colori dal rosso sangue al blu cobalto. Arancio, verde, viola. Frutta, boschi e tramonti. Riflessi del lago dei maya Kaqchiquel e Tz’ utujil.

La strada sale ripida zigzagando sulla montagna che si addolcisce come i sentimenti quieti di un ricordo, di uno sguardo. Di una carezza di vento che sfiora il volto distratto da un pensiero di bimbi che giocano nelle piazze. Tra tele, coperte, pane, dolci e maialini sotto lo sguardo attento di madri indaffarate nel tessere e vendere in un turbine chiassoso e vivace.

Bellezza disarmante di un panorama su ampie vallate. Aria sottile. Netta e chiara definisce i contorni, le curve femmine dei dossi. In alto il cielo si copre di un velo fino a gonfiarsi ed esplodere in pioggia affilata, silenziosa, impercettibile. Poi tutto diventa polvere.

Oltre la montagna, la regione del Quichè. Ultimo rifugio dei guerriglieri. Molti i posti di blocco e affiora un forte senso di disagio. Viaggiatori in terra martoriata da rivolte e repressioni dei campesinos. Dove la violenza è da sempre sovrana. Razzismo e misoginia non ancora sconfitte. Il pensiero va a Rigoberta Menchú e alle sue parole “ il Guatemala dovrà prepararsi a essere governato da una donna indigena”.

Armati fino ai denti, i militari controllano passaporti. C’è chi appoggia una bomba a mano in terra mentre fruga tra i cenci negli zaini. Poi la porge in segno di sfida. Sono giovani , sono le “tigri” del corpo antiguerriglia e sanno tutto sul “calcio italiano”. No gringos, no periodistas. Mi si gela il sangue. Ma sono italiana e conosco i nomi degli “azzurri”. Un lasciapassare valido in tutto il mondo.

La pista scende, poi sale. Si aggrappa, si stringe è irrequieta come i pensieri. Ora liquidi, bagnati da visioni di violenza, quando l’uragano del terrore passava nei villaggi, oltre alle macerie e ai corpi straziati e lasciava dietro di sé un popolo triste. E’ l’angoscia del crepuscolo delle idee.

L’aria è fresca a 2000 metri di quota. Chichicastenango si sveglia. E’ giorno di mercato. Aspetto l’alba sulle scalinate della chiesa di Santo Tomàs. Ho girovagato insonne per le stradine nel silenzio della notte interrotto dal rumore di quei pensieri, dal battito del cuore e dal pianto di qualche bimbo nelle piccole case.

Arrivano i carretti radenti ai muri delle case, in fila, uno dietro l’altro. Sono solo ombre. Cantano i galli col suono di un flauto. Lieve, delicato, angelico. Annuso profumo d’incenso. Il sole sbatte sul grande portone della chiesa e sui gradini si ammucchiano mazzi di gladioli rosa.

Il contorno delle cose si colora di fucsia, nero, giallo. Dovunque, nelle gonne, nelle giubbe. Sulle fusciacche che reggono i bambini sulla schiena delle madri. Occhi assonnati, visetti tondi, capelli di pulcini nerissimi, labbra imbronciate sbucano da quella tela che li unisce alla vita.

Suoni di tamburi, chitarre e marimbe. Intanto la piazza si riempie di maschere di madera intagliate a mano, frutta, verdura. Stoffe, montagne di gomitoli di lana colorata e centinaia di candele. Ti accorgi che qualcosa non va, stona. Non fa parte di quel dipinto. Non rientra nella cerimonia.

Capelli biondi. Arruffati. Che turbano le nere e lucide trecce. Pelle bianca, “Lacoste”, pantaloncini corti, scarpe da tennis.
Eccoli. Sono i turisti, puliti in fila serrata e li distingui dai viaggiatori, solitari coi sandali del Quichè e i pantaloni del Nepal. Scena dentro la scena. Quadro dentro il quadro. Matrioska di gente, rumori, suoni e colori. Volti su volti. Maschere.

La cera delle candele si scioglie sul pavimento della chiesa affollata. Voti. Suppliche per la semina, per la figlia malata. «Señor San Augustin, Señor San Esteban, Señor Santo Tomás… ayuda nosotros siempre…». Dolce babele di suoni, di note, di grida quasi strozzate. Volti umili segnati dal vento e dal sole. Fierezza antica. Si prega, si canta, si balla tra i fumi d’incenso. Fuori in processione, la Madonna mentre si contratta per una panca colorata. Si parla del tempo in dialetti diversi. Uno dentro l’altro. Vivaci e ciarlieri gli Indios discendenti dagli antichi Maya.

Oggi non si pensa ai morti assassinati lasciati ai bordi delle strade. Ai campesinos torturati. Alle croci innalzate lungo la strada protette dal verde quasi fosse un cimitero di campagna mitigando la crudeltà del loro messaggio. E’ giorno di festa. Domani qualche poeta canterà di vita e di morte. E ognuno porterà la sua maschera nel silenzio assassino.

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